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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Pietro Paolo Mennea (2) PDF Stampa E-mail
Lunedì 29 Luglio 2019 07:11

Ieri abbiamo ricordato l'anniversario della vittoria olimpica di Pietro Paolo Mennea sui 200 metri ai Giochi Olimpici di Mosca '80. Lo abbiamo fatto con le parole di un grande del giornalismo sportivo in Italia, Gianni Brera, che, due anni dopo quell'entusiasmante evento, nel 1982, in occasione dell'annunciato ritorno alle gare del velocista barlettano scrisse...un pezzo a modo suo. Oggi vi proponiamo un altro elegante scritto di una persona che, in ragione del suo lungo esercizio professionale, ebbe modo di conoscere Mennea da vicino, molto da vicino. Augusto Frasca, attualmente vicepresidente del nostro Archivio Storico, ha dato alle stampe, qualche mese fa, un suo piccolo libro, piccolo di formato, ma ricco di contenuti, che ha titolato «Qualche pagina per gli amici». A pagina 161 sotto il titolo «Mennea, l'uno e l'altro» una cinquantina di righe, anche meno, tutte centrate sul campione Mennea e sull'uomo Mennea, righe che vale la pena leggere con molta attenzione.

Mennea, l'uno e l'altro

di Augusto Frasca

"Fu scoperto in una classe di Barletta da Alberto Autorino, insegnante di educazione fisica, sostenuto da Ruggero Lattanzio, presidente dell'Avis Barletta, da Oberdan La Forgia, presidente dell'Aics Puglia, allenato da Francesco Mascolo. Trovò un muro, inizialmente, in Carlo Vittori. Si dovette alla lungimiranza di Ruggero Alcanterini, membro della presidenza federale, e all'intervento diretto di Primo Nebiolo, perchè il tecnico lo mettesse in lista per gli Europei del 1971. A partire da quell'anno, la progressione tecnica di Pietro Mennea trovò nella Scuola di Formia la sede ideale, e nella disponibilità di un docente dalla pronunciata personalità l'assistenza più accreditata. Furono da allora, con Mennea in campo, stagioni, in ogni senso di fuoco. Furono successi ai campionati continentali del 1974, negli accesi notturni milanesi dell'Arena e del Palasport, nei pomeriggi d'una Praga illividita dal freddo, sicuramente il massimo, in chiave tecnica, espresso in una ventennale carriera. Furono il primato mondiale di Città del Messico, che recò e reca, tutta intera, la firma di Primo Nebiolo, l'affermazione olimpica di Mosca, il pugno in faccia all'ambiente federale e al suo allenatore con il primo annuncio di ritiro ingenerosamente nascosto, la ripresa, la quarta finale olimpica a Los Angeles, il doping mai esplicitamente dichiarato, il secondo annuncio di ritiro, un nuovo rientro per Seul 1988. Grande atleta, additato tra i massimi dell'atletica e dello sport nazionale. Atleta d'eccezione, come persona Pietro Mennea fu altro, e non furono rare le testimonianze, prima fra tutte l'ignobile aggressione fisica a Livio Berruti messa in atto nel 1979 sul prato di Formia in combutta con familiari e compagni, lui vomitanto sull'uomo a terra insulti irripetibili. Amò alimentare la favola di un uomo refrattario ai compromessi. Vantò atteggiarsi a vittima del sistema, quando in realtà l'unico sistema alla sua portata fu quello che a lui tutto concesse, vale a dire la Fidal di Nebiolo, del dirigente che gli garantì massima assistenza tecnica, apoprodo ai traguardi agonistici più elevati e, come opportunità suggeriva, compensi adeguati alle sue imprese e provvidenze mai dichiarate, tantomeno messe nel novero della riconoscenza. Alla scomparsa, dolorosa, ebbe il potente compianto giustamente dovuto a un grande personaggio dello sport. Ma, in luogo di semplici manifestazioni di affetto, demagogia, retorica della morte e volgari esibizionismi aprirono verso l'uomo un imbarazzante accorrere d'incensi. Pietro Mennea non fu né una vittima, né un eroe, né un profeta. Fu un grande atleta".

Ultimo aggiornamento Lunedì 29 Luglio 2019 09:24
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Pietro Paolo Mennea PDF Stampa E-mail
Domenica 28 Luglio 2019 10:37

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Copertina della raccolta dei risultati delle gare di atletica ai Giochi Olimpici Mosca '80 e riproduzione della pagina 64 con il dettaglio completo della gara finale 200 metri uomini. Per poter leggere facilmente i risultati cliccare direttamente sulla pagina.

 

Era il 28 luglio 1980... Quel giorno...Stavolta abbiamo scelto lo scritto di uno dei nostri scriba preferiti. Di lui, non serve dire niente: qualunque parola, aggettivo, sarebbe solo un maldestro insulto. Diciamo che l'articolo è datato 17 agosto 1982, il giornale è «la Repubblica», il titolo «Lasciate che Mennea rincorra la sua rabbia», l'autore Gianni Brera. Il quale aveva lasciato qualche mese prima «il Giornale» di Indro Montanelli, e scrisse il suo primo articolo «repubblicano» il 20 marzo.

Abbiamo poi in serbo un altro elegantissimo «cammeo», che rimandiamo solo per non appesantire la lettura...domenicale. Fra il pranzo della festa, la pennica, e un po' di drogaggio televisivo, vien presto il tramonto. Quindi rinviamo a momenti di maggior lucidità. Anche perchè il «pezzo» merita attenta concentrazione.

La nostra scelta di oggi si stacca completamente della narrazione dell'evento che la data ci suggerisce di ricordare, ma attiene la personalità del campione olimpico. Per quella gara, se volete rivederla fino ad averla a noia, è sufficiente entrare su questo indirizzo.

Lasciate che Mennea rincorra la sua rabbia

di Gianni Brera

"Pietro Paolo Mennea ritorna dopo quindici anni di maceranti esercitazioni sui blocchi di partenza ed in curva. Mentre lo rapivano in cielo, ha avuto il coraggio di liberarsi da un kidnapping. Ho letto e sentito gente scandalizzata.Io mi sono divertito molto. Mennea è un dinarico misteriosamente finito in Puglia (dovrei dire meglio: misteriosamente rinato in Puglia, dove era normale che affluissero genti dell'altra riva). Secondo le norme ragionevolmente capziose degli entonologi, Mennea, Berruti ed Ottolina sono della stessa razza: tutti e tre hanno il crapottone più largo che lungo (brachicefali), più vicini alle genti alpine che alle mediterranee.

"Fra i tre, il più bello, in senso estetico, era ed è l'abatino Berruti; questa perfezione morfologica si traduceva in uno stile di corsa che richiamandomi a fin troppo ribadito «volitare» dovrei meglio definire angelico (e badate che non gioco sull'iperbole!). Sergio Ottolina, che ha fatto anche poco, stava a mezzo fra l'abatino e quel divino scorfano che è Mennea. Costui correva su due linee scandalosamente divise. Visto frontalmente, pareva che in partenza si fosse portato via il blocco e lo reggesse ora, assai buffamente, fra i glutei. Emanava da lui, l'orrendo fascino della bruttezza costituzionale. E complicava le cose (almeno in me) il saperlo povero (come me) e così rabbiosamente deciso a redimersi soffrendo.

"Una volontà spaventosa lo animava al di là di ogni convenienza estetica. A petto di Berruti, meglio, della sua immagine, pareva decisamente impudico. Che un diacono del vigore di Carlo Vittori lo avesse in cura, perigliosamente sfidando i rischi del centauro educatore, lasciava perplessi i malevoli: se lo tiene, essi dicevano, segno è che la penuria del vivaio è grande...

"Ma Pietro Paolo era un autentico stilista. La povertà lo immunizzava da scrupoli anche fastidiosi. Leggevi sulla sua faccia i tremendi ricordi della fame ereditaria: l'aveva e l'ha tutta sconvolta da piani astrusi. I suoi occhi non piccoli ma neri, luciferini, mandano languidi guizzi da occhiati incavate, sopra gli zigomi forti e sbilenchi, La bocca è larga, distorta, sopra un mento curiosamente deviato.

"Guardandolo da vicino, sentivo ingroppirsi la gola. Già per i poveri come me sono partigiano fino a farmi vergogna. Poi, mi affliggeva il suo stile, dal quale aborrivo come da un peccato dinamico senza perdono possibile. Giustificava la tenacia, il coraggio, l'impudicizia con il bisogno economico. Ma intanto mi andavo accorgendo che l'uomo rientrava fra le eccezioni più straordinarie. Come scattista, già, irrideva apertamenta all'istinto. Lo scattista naturale guizza dai blocchi e cerca di mettersi in corsa con le minori dispersioni possibili. Poco, di norma, gli può giovare la scuola. Quella che ha in pancia esprime secondo innata propensione a spingere e a lottare. Ma Pietro Paolo si macerava in tormentose sedute per limarsi come un poeta fa con i suoi versi non ancora soddisfacenti. Carlo Vittori andava plasmando per lui quella sagoma ingrata. E ingenti premi (agonisti, s'intende) ne risarcivano la sofferenza.

"Mennea non è dunque uno scattista naturale: è un miracolo di sintesi tecnica e morfologia. Dal misterioso sincronismo dei suoi arti in apparenza slegati fra loro viene espressa una armonia che si traduce in tempi clamorosamente rari su questa terra. Giuseppino Mastropasqua  vescovo della nostra parrocchia atletica, dice che i muscoli di Mennea non sono di carne, bensì di finissima seta. Li ha pettinati e prettati per oltre dieci anni migliorandoli a ritmi del tutto fuori dell'ordinario. Gli scattisti bruciano se stessi in un volo breve e pieno di affanno: Pietro Paolo rinasce agni anno come la mitica Fenice.

"Affiora puntualmente al primato mondiale (19 secondi 72 centesimi!), al titolo olimpico. E siamo tutti senza fiato di fronte a lui che umilia anche la nostra ragione. Come fatico a trattenermi ora dalle retorica gioia di averlo fratello in povertà! Giudicato secondo il metro comune, questo brutto scorfano è un iddio sceso fra noi in incognito a consolarci di non essre belli. La sua vera forza è un rovente ottimismo, la sua eccellenza tecnica è volontà mai rassegnata e quindi indomabile. Sul piano morale è il più mirabile e alto di tutti noi, atleti o caricature di atleti che noi siamo.

"Qualcuno ha rimore adesso che, non rassegnandosi a tornare, iddio misconisciuto, fra la gente comune e sconosciuta, abbia a ledere un'immagine che perdurando ci esalta e ci aiuta a vivere. A me pare questo banale egoismo! Pietro Paolo, dico, anatroccolo nero della favola, superbo cigno nella realtà degli stadi, noi ti dobbiamo tanta riconoscenza e tanta ammirazione da non poter in alcun modo contrariare i tuoi desideri. Vuoi tornare in pista? Avanti, fallo in grazia di Dio! E finalmente divertiti, se puoi, sii giovane almeno ora, all'età in cui gli scattisti di questa terra sono vecchi decrepiti. È tuo diritto, esser giovane, finalmente".

Ultimo aggiornamento Venerdì 02 Agosto 2019 15:06
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Sara Simeoni PDF Stampa E-mail
Venerdì 26 Luglio 2019 14:29

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Copertina della raccolta dei risultati delle gare di atletica ai Giochi Olimpici Mosca '80 e riproduzione della pagina 36 con il dettaglio completo della gara salto in alto donne. Per poter leggere facilmente i risultati cliccare direttamente sulla pagina.

 

Era il 26 luglio 1980... Quel giorno...Vi lasciamo alla lettura di alcuni brani di quanto scrisse Elio Trifari sulla rivista «Atletica leggera», numero 248 - 249, agosto - settembre 1980. Trifari era giornalista alla «Gazzetta dello Sport», si occupava prevalentemente di atletica e sport olimpici; ricoperse anche la carica di vicedirettore, e in seguito fu direttore della Fondazione Candido Cannavò, curando la pubblicazione di parecchi libri. Ecco il suo racconto tratto dalle pagine della rivista che aveva la sua redazione a Vigevano e che è stata per oltre quarant'anni (fino al 2001) un punto di riferimento per l'atletica italiana. E per chi vuole, ecco qualche frammento televisivo di quella gara, con il commento di Paolo Rosi.

Sara diventa finalmente d'oro

"Possibile che, quella mattina del 26 luglio, quel sabato che Mosca apriva con il volto più imbronciato del solito, con gli scrosci violenti della pioggia, non riuscissi a trovare dentro di me neppure la traccia d'un presentimento, nemmeno la spia, l'indizio di quel tocco d'emozione che prelude ai momenti più importanti di un'Olimpiade? C'era, certo, la caduta di tensione che la consapevolezza d'uno sciopero in Italia - che t'impediva di fatto di riferire a botta calda su quello che avresti visto - t'induceva dentro; ma un livello più alto di partecipazione, conscia o sotterranea, avrei pur dovuto rintracciarlo, da qualche parte, dentro di me. Dopo tutto era la giornata di Sara Simeoni, l'appuntamento, dopo quattro anni, con una sfida che con intensa partecipazione emotiva avevo vissuto a Montréal, nel '76, anche allora con uno sciopero in Italia ad impedirmi di darne notizia immediata, ma con una concentrazione che mi aveva legato direttamente, e indissolubilmente, a qull'argento macchiato di lacrime.

"A oltre un mese di distanza, allorché scrivo questi ricordi, mentra Sara ha avuto il tempo di ritirarsi e di pentirsi più d'una volta, dopo il trionfo moscovita, potrei dire ch'era in me la serena consapevolezza d'un successo che non poteva sfuggire, d'una celebrazione che nessuno poteva sottrarre alla donna più alta del mondo. Ma, in realtà, non era solo questo: quell'apparente distacco aveva motivazioni più sottili e sfuggenti, era forse il desiderio di partecipare il meno possibile all'avvenimento, per essere, forse, vigliaccamente, il meno possibile coinvolto in un fallimento che non osavo neppure evocare.

"Quel pomeriggio al Lenin, l'intera stampa italiana s'era data convegno..

"...era su Ackermann e Kielan che s'appuntavano i nostri occhi, eran le prove della tedesca est e della polacca che seguivamo con la tensione peggio dissimulata, con l'attenzione più viva....Il passato era quel ventrale sublime che la Ackermann ha deciso di non mostrarci più...Vedere la Ackermann sciogliersi all'improvviso, a 1,91, era stato anche per me un colpo fiero...Dopo meno di due ore di gara, dalla scena dello sport mondiale usciva, quasi in punta di piedi, una delle più alte protagoniste dell'aultimo decennio...C'era anche da tremare a veder fuori la Ackermann, l'unica che la Simeoni davvero temesse...Azzaro addentava sigarette, e la Kielan dormicchiava sul manto sintetico, sbirciando la Simeoni. Sicurezza, spavalderia, incoscienza dei venta'anni? Lo avremmo saputo presto. «Io lo sapevo già», avrebbe detto dopo la Simeoni, l'unica ad essere sicura che l'Urzula si sarebbe elevata senza pecche fino ai suoi limiti, nella circoostanza l'1,94 che la progressione le imponeva, per arrendersi come davanti ad un muro invalicabile all'assalto degli 1,97. Era questa la quota della vittoria; era questa la quota che la Simeoni consegnava agli archivi dei Giochi...

"Il cliché delle lacrime, liberatorie e gioiose, accompagna da tempo le imprese della Simeoni...forse Sara sarebbe meno «vergognosa», come dice lei, di riferire dei suoi pianti...se avesse saputo quanto poco asciutii fossero rimasti gli occhi di tanti giornalisti italiani in tribuna...Durante l'intervista, mi sorprendevo a distrarmi più d'una volta, mentre Sara raccontava e ricostruiva le emozioni di una giiornata che ricorderà per sempre, e noi con lei....

A questa ragazza, pensavo, dobbiamo una sorta di riconoscenza non solo sportiva, ma civile, nel momento in cui l'Italia...ne fa la portabandiera di un modo di essere, di vivere. Se sarà necessario tracciare un bilancio dell'incidenza della Simeoni nel tessuto umano del nostro Paese...non basterà più quel che tentammo quattro anni fa, interpretando il suo argento come un premio oltre misura alla donna italiana, nello sport e nella società. Ora che Simeoni significa Italia che piace e vince, che affascina e avvince, queste analisi non bastano più. Quando la Simeoni cerca di scrollarsi di dosso l'immagine della donna sportiva protagonista, della primatista mondiale costretta per dfinizione a vincere, compie uno sforzo notevole, certo, ma sarebbe enorme e senza speranza di riuscita, il suo sforzo, se comprendesse appieno che non solo questo fardello deve portare sulle spalle; ma quello ben più pesante, di simbolo, totale, del nostro Paese nel mondo".

Ultimo aggiornamento Venerdì 26 Luglio 2019 16:52
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Maurizio Damilano PDF Stampa E-mail
Mercoledì 24 Luglio 2019 08:13

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Copertina della raccolta dei risultati delle gare di atletica ai Giochi Olimpici Mosca '80 e riproduzione della pagina 97 con il dettaglio completo della gara dei 20 chilometri di marcia. Per poter leggere facilmente i risultati cliccare direttamente sulla pagina.

 

Era il 24 luglio 1980... Quel giorno...Portava il numero di gara 425, aveva 23 anni, teneva pettinati sulla zucca ancora quasi tutti i capelli, arrivò al traguardo senza smaniare, urlare, come tanti degli esagitati di oggi che si danno delle gran botte sul petto come gli scimmioni dei film di Tarzan. Eppure era campione olimpico, nella sobrietà di figlio della terra piemontese, felice ma composto, come quell'altro vent'anni prima a Roma '60. Sapete di chi diciamo vero? Quello di oggi di nome e cognome fa Maurizio Damilano. Avete notato? La nostra carrellata iniziale di ori olimpici porta il sigillo di tre marciatori: Frigerio, Dordoni, Damilano, un milanese, un piacentino, un cuneese. E non è finita, altri ne verranno. Abbiamo cercato fra le fin troppo conservate carte qualcosa che parlasse di quel giorno, e siamo stati fortunati: a pagina 12, del numero 8 - 10 / 1980, della rivista «Atletica» abbiamo pescato uno scritto dello stesso Maurizio il quale, subito dopo aver assaporato il gusto dell'alloro olimpico, scrisse, quasi a caldo, le sue impressioni. Eccole:

Abbiamo vinto in tre!

"Quando 45 minuti prima dell'inizio della 20 km olimpica lasciavo il cav. Dordoni ed il prof. Conconi e, con Giorgio, entravo in camera d'appello, ero molto sicuro di me stesso, sapevo di trovarmi in condizioni ideali.

"Questa serenità e consapevolezza di aver fatto tutto, e certamente bene, per presentarmi all'appuntamento olimpico al meglio, l'ho cpmpreso dopo, a gara terminata, è stata la mia arma vincente.

"La giornata paerticolarmente calda e priva di quel vento che ogni giorno aveva spirato su Mosca, rendeva tutti più nervosi, sapendo che le incognite che accompagnano ogni pre-gara diventano maggiori.

"Finalmente simo allineati sulla linea di partenza in attesa del colpo di pistola. Ancora qualche pensiero, la raccomandazione a me stesso di fare una prima parte di gara tranquilla spendendo poco, perchè il caldo, anche se cercavo di mascherarlo, preoccupava pure me.

"Via! La gara è partita. I primi 300 metri in pista alla ricerca di portarti in buona posizione all'uscita.Un'occhiata all'orologio sul grande tabellone dello stadio per rendermi conto dei tempi. Siasmo fuori. Mi aggancio al plotoncino di testa. Mi guardo attorno per vedere chi c'è. Attraversati i viali del parco che circonda lo stadio Lenin, ci ritroviamo sul lungo Moscava. Stiamo marciando da 2,5 km. In testa come previsto Bautista affiancato dal ceco Pribilinec. Io mi tengo in fondo al gruppettino di una decina di unità che segue di pochi metri i primi due. Ho i pensieri rivolti a marciare il più possibile rilassato. Iniziano i primi cedimenti ed il gruppetto si assottiglia. Ad ogni giro di boa cerco di rendermi conto dei distacchi. Particolarmente seguo i tedeschi dell'Est, gli unici grandi che mancano in testa. Ai 10 km siamo rimasti in 4, Bautista, Solomin, Pochenchuk ed io. Sto molto bene ed inizio a rendermi conto che una medaglia è vicina. Bautista, che ha guadagnato un 20 m., mi pare stanco e sta marciando inaspettatamente contratto. Decido di allungare leggermente. Soltanto Solomin mi segue, sento che ha una respirazione molto affannata, ma l'incitamento del pubblico lo aiuta a non mollare. Raggiungiamo Bautista, e siamo in tre a guidare la gara. La medaglia ormai è sicura, rimane da vedere di quale metallo sarà. Continuo a controllare ad ogni giro di boa i distacchi, ed a seguire quando lo incrocio Giorgio che sta marciando in buona posizione.

"Bautista e Solomin ricevono la prima ammonizione contemporaneamente. Il messicano ha una reazione istintiva, strappa e guadagna subito 20 m. - Penso tra me stesso che è pazzo. È stato appena richiamato e subito cerca di mollare il sovietico, che gioca in casa, invece di tenerlo sotto tiro ed attaccarlo nel finale, rischiando meno d'incorrere in una squalifica. Il primo colpo di scena, che in verità un poco l'attendevo, verso i 17,5 km. - Bautista non rientra verso lo stadio Lenin, poco prima di rimboccare il raccordo, il giudice arbitro polacco lo blocca  con la classica bandierina rossa. Ormai sono secondo, ho guadagnato qualcosetta a Solomin, ma sono indeciso se attaccarlo dopo aver visto il risultato di Bautista. Solomin si gira un paio di volte a controllarmi. Capisco che sta soffrendo, ma preferisce rimanere sul mio ritmo rimontando lentamente senza strappare. In una curva secca, nascosta dagli alberi del viale che andiamo ad imboccare, noto che il pulmino dei giudici si è fermato. Subito non penso che Solomin sia stato squalificato. Credo stia vomitando ma il pubblico ed i poliziotti hanno avuto uno scarto verso il centro della strada e mi nascondono la scena, anche se Solomin non mi precede che di una trentina di metri.

"Quando me ne rendo conto, penso che il sogno più grande e nascosto della vigilia si sta avverando. Marco gli ultimi due km che mi portano in pista tranquillamente. Infilo il sottopassaggio e sono in pista. Mi guardo attorno e vedo, tra l'immensa folla che assiepa le gradinate dello stadio Lenin, una bandiera tricolore che sventola.

"Sto pensando a casa, o cosa starà facendo Sandro che mi ha preparato per questa stupenda affermazione. Mi dico che gran parte di tutto questo è merito suo. Raggiungo il traguardo e alzo le braccia al cielo, l'alloro olimpico è mio ormai ne sono certo. I primi complimenti sono del presidente Nebiolo, me li fa in piemontese, la mia e anche la sua lingua natale. C'è molta confusione intorno, gli amici si susseguono, ed io attendo l'arrivo di Giorgio. Voglio comunicargli il risultato che sicuramente non sa (l'ultima volta che mi ha incrociato sul tracciato ero secondo). Arriva molto affaticato, gli dico che ho vinto e lo abbraccio. Quest'oro olimpico è anche suo e di Sandro> Sul traguardo di Mosca sono giunto per primo io, ma con me c'erano loro. L'Olimpiade l'abbiamo vinta in tre".

Dopo paziente ricerca abbiamo trovato un video di oltre undici minuti della gara di Mosca, con il commento di Paolo Rosi. Chi volesse può vedere questo documento della televisione sovietica a questo indirizzo.

Ultimo aggiornamento Venerdì 26 Luglio 2019 15:07
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Ugo Frigerio PDF Stampa E-mail
Lunedì 22 Luglio 2019 09:20

Era il 13 luglio 1924. Quel giorno...Prima di raccontarvi, brevemente, quel giorno, meglio chiarire che stiamo facendo un passo indietro nel tempo, meglio nel calendario: tutti d'accordo che il 13 viene prima del 21? Lo diciamo a scanso di puntualizzazioni, chiarimenti, e via cantando. Il motivo. Domenica scorsa, abbiamo ricordato il 21 luglio 1952, giorno nel quale Pino Dordoni, l'atleta che più di ogni altro ha onorato la spesso bistrattata disciplina della marcia (le ultime decisioni della I.A.A.F. sono tangibile ennesima prova della sudditanza ai capricci del Comitato Olimpico che, da sempre, odia queste prove), donò all'Italia un nuova medaglia d'oro. Poi però ci siamo anche detti: se non sbiadisce l'oro conquistato da Pino, non sbiadisce neppure quello degli altri. Breve, elementare ricerchina, e abbiamo messo in fila le date dei successi olimpici degli atleti italiani. E ne è venuto fuori che, calendario alla mano, il primo giorno, diciamo così, utile per andare in gioielleria fu il 13 luglio 1924. Non sarà neppure superfluo aggiungere che faremo la stessa cosa per tutti i nostri campioni olimpici.

Dunque, era il 13 luglio 1924. Quel giorno...Sapete che cosa facciamo? Piuttosto che far scrivere uno scolaretto, lasciamo che quel che accadde ve lo racconti il diretto interessato, che si presentava così:«Sono un autentico milanese della città di Sant'Ambrogio...la città che fu culla e roccaforte degli Sforza e dei Visconti. E per essere più esatto dirò anche che venni al mondo nella cara e bella Milano il 16 settembre dell'anno 1901. Mio padre, Enrico, e Giuseppina Gussetti mia madre erano fruttivendoli a domicilio, e tenevano negozio in Via Tivoli». Carta d'identità di Ugo Frigerio, cui dobbiamo aggiungere la data della sua scomparsa, il 7 luglio 1968, a Garda, sulla sponda veronese del lago Benaco, paese da cui si prende la strada per salire a Costermano che diede i natali ad Adolfo Consolini. Stiamo trascrivendo brani dal libro «Marciando nel nome dell'Italia», scritto di suo pugno dal signor Ugo nel 1934.

Il suo racconto di quei Giochi Olimpici, gli ottavi dalla rinascita, nello Stadio di Colombes, circondario di Parigi, inizia così:

"Le Olimpiadi si aprirono il giorno 5 luglio, e la prima giornata fu dedicata alla cerimonia per l'apertura dei giuochi: giuramento e sfilata degli atleti. Mi scelsero alfiere della squadra italiana, ed ebbi l'onore di rappresentare tutta la Patria nel simbolico nostro tricolore...Quella che ci riguarda è la settima giornata, che cadde precisamente il giorno undici, in venerdì...meno male che restò scongiurato il pericolo di un «tredici», in cotal giorno della settimana.

"La prima gara cui presi parte, che era soltanto una eliminatoria, e alla quale si può attribuire fino ad un certo punto un carattere decisivo, venne rinviata di due giorni per una serie di incidenti clamorosi. La gara era la classica prova sui 10 mila metri di marcia, e i concorrenti furono divisi in due batterie> la prima si svolse il giorno 9, e si distinsero bravamente Pavesi e Bosatra che si classificarono per la finale. Pure nella stessa giornata doveva seguire la seconda, nella quale dovevo incontrarmi coi più gagliardi marciatori del mondo, che la...sorte aveva riservato alla seconda batteria. Ma quel giorno, anzi quella sera avvennero cose da «Mille e una notte», che mandarono a monte ogni cosa, impedendo lo svolgimento dell'eliminatoria...

"Il marciatore austriaco Kuhnet, velocissimo anche se non invidiabile nello stile, aveva preso il primo posto e marciava ad una velocità oraria di circa 14 cilometri (fantastica!), quando un autorevolissimo personaggio in tenuta da chirurgo in sala operatoria, gli si avvicinò e gli battè una mano sulla spalla. L'originale medico, che era un commissario giudice di marcia, avvertì il suo cliente che era incorso purtroppo nella squalifica, dichiarando di averlo sorpreso in un passo di corsa.

"Kuhnet fa il diavolo a quattro, il pubblico fischia e urla: tutto tempo e fiato sprecati. Il marciatore è condannato: deve ritirarsi. Il giudice olimpico è sacro e inappellabile.

"Per questo...falso passo, La Federazione austriaca fece i suoi doverosi e giusti passi, reclamando la riammissione dell'atleta escluso; e pare che l'avesse anche ottenuta. Ma il giudice non si scompose, e fu irremovibile; prima minacciò, poi rassegnò le sue dimissioni dalla carica. Con lui furono lealmente solidali tutti i suoi colleghi. L'affare prese una cattiva piega...e si dovette nominare una nuova giuria.

"Finalmente, dopo due giorni di serrato dibattito in seno al Consiglio Direttivo Olimpionico, i marciatori della seconda batteria sui diecimila metri possono partire; e nel loro rango figura naturalmente anche Kuhnet, riammesso al posto d'onore.

"Oltre al velocissimo Kuhnet ho a che fare col sudafricano Mac Caster, che per poco non ha fatto crollare il record del mondo sulla distanza. Posso però serenamente contare sulla certezza di non dar noie al...chirurgo mentre è in sala d'operazione, e questo è già qualcosa. Con me sono pure Valente, Pavesi e Bosatra. Al campionissimo Mac Caster fa seguito la brillante pariglia Schwab-Goodwin, svizzero il primo e inglese il secondo.

"Il sud-africano, chiuso come in una guaina nella sua maglia verde, attacca; e per i primi tre giri egli ha una trentina di metri di vantaggio sul mio gruppo. questo distacco iniziale, di nessuna importanza tecnica e tanto meno strategica, deve aver diversamente impressionato personalità italiane, come sarebbe a dire l'on. Lando Ferretti e Arnaldo Fraccaroli. Li sapevo entrambi, con altri ottimi connazionali sul luogo del grande duello; spettatori appassionati, sinceri, affezionati. Incontrandomi anzi l'on. Lando Ferretti con lo sguardo, proprio quando forse pensava, rammaricandosi, al mio svantaggio nei primi giri, subii l'impressione che volsse chiedermi, con quegli occhi dubitosi: - Dio mio, che accade? - Lo tranquillizai subito, accelerando. Alla fine del terzo giro Mac Caster era ingoiato dal mio gruppo.

"Goodwin, che mi sta appena innanzi, sfoggia uno stile poco eccellente...ho una sete d'inferno...il sud-africano non mi dà requie un secondo...al decimo giro, stufo di essere caricato, scatto quasi rabbiosamente, ma sorrido tosto alla folla che m'indirizza una ovazione poderosa quanto spontanea...L'inglese Clarke invece mi attaccò audace e baldanzoso, e al sesto chilometro riuscì a passarmi. Lo lasciai smaniere un pochino...quindi lo assaltai deciso...il traguardo era mio...

"Nella finale ebbi nuovamente a lottare, oltre che coi nominati leoni della marcia, anche con Pavesi, Clermont (francese) e Hinckle americano degli Stati Uniti, che per coraggio e ...voracità sono strettissimi parenti dei primi.

"Il combattimento fu realmente accanito, e ognuno fece tutto quanto potè per conquistare la maggior gloria. Ma molti ebbero troppa fretta...Il senso della misura in rapporto all'energia è innegabilmente una magnifica formula...Passiamo al mio arrivo che fu davvero trionfale per lo spettacolo che offrì tutto l'immenso pubblico che affollava il maestoso stadio, sorto ad applaudire con fanatico entusiasmo. Dico con sincerità che, a osservare dal mezzo del campo quel favoloso vivaio umano plaudente con tanta convinzione e fracasso, mi veniva il capogiro e anche una gran voglia di piangere. Appena arrivato levai il braccio per fare il saluto romano; e Lunghi, la «vecchia gloria» dell'atletismo nostro, mi abbracciò per primo...ma il nostro bel tricolore non ascende. Al giudice inglese di marcia, presidente della giuria...salta in mente d'incolpar me d'aver corso «per ben trentacinque centimetri» come disse tutto angosciato il povero «Guerin Sportivo». E precisamente (ah, che disdetta!) nell'atto di immergere la mia spugna in un secchiello del prato. Meno male che la mattina seguente un giornale francese, riferendosi alla ridicola baggianata, scrisse:«La accusa fa ridere gli iniziati ai misteri della marcia, che piace solo nello stile unico e inimitabile di Ugo Frigerio».

"Scendono intanto le tenebre e ogni cosa copre il manto della notturna pace di Colombes."

Ultimo aggiornamento Martedì 23 Luglio 2019 14:28
 
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