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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Ivano Brugnetti PDF Stampa E-mail
Venerdì 23 Agosto 2019 15:03

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Due copertine dedicate al successo olimpico di Ivano Brugnetti: a sinistra quella del secondo volume dell'Annuario edito dalla Federazione italiana, datato 2005 ma relativo all'anno 2004. La seconda da una copertina della rivista della stessa federazione: Brugnetti bacia il suolo dopo l'arrivo ad Atene, gesto mistico del Papa Giovanni Paolo II che divenne una «moda» fra gli atleti

Era il 20 agosto 2004...La settima medaglia olimpica di metallo dorato conquistata da un atleta italiano arricchisce il Pantheon sportivo della Città di Milano. Ugo Frigerio era milanese, Ivano Brugnetti pure, di Bresso. Se contiamo medaglie meno preziose come lega metallica, dobbiamo aggiungere il bronzo di Fernando Altimani. Altri milanesi che ci hanno provato, due eclettici: Donato Pavesi e Raffaello Ducceschi, di Sesto San Giovanni. Tutti meneghini. E sai quanti altri ancora a scorrere le liste messe in fila da chi ha passione e pazienza. Quel lunedì 20 agosto  Atene era una fornace, era il primo giorno di gare nello Stadio uscito dalla progettualità dell'archistar Santiago Calatrava (andateci adesso a vedere «le nuove macerie di Atene»). Chi aveva avuto la fortuna era andato il sabato 18 in trasferta a Olympia, al Sacro Recinto, per le due gare di lancio del peso, che della sacralità del luogo se ne infischiarono presentando atleti che non si alimentavano solo a pane e Nutella. La storia di Brugnetti ce la racconta Piero Mei, all'epoca inviato del quotidiano romano «Il Messaggero», il quale scrisse un ritratto del neo-campione olimpico per la rivista «Atletica», numero luglio - agosto, pagine 18 - 21. Di quella gara, un ricordo incancellabile: la determinazione di Brugnetti dal primo all'ultimo metro di quei bollenti 20 chilometri, sempre davanti, o solo o comunque con i primi, e poi la schermaglia a tre, lui, l'australiano Deakes e lo spagnolo «Paquillo» Fernández, altro che affonderà, dopo qualche anno, nelle sabbie mobilissime dell'illegalità e della bugia. Una noticina invece che ha a che fare con la marcia senza regole fisse della fortuna: i genitori di Deakes avevano vinto, qualche mese prima, la bella somma di un milione di dollari australiani (oltre 600 mila Euro ai valori odierni) giocando cinque centesimi ad una poker machine.

 

 

Una marcia trionfale lunga quanto l'Equatore

di Piero Mei

Ivano è innamorato. E, siccome è un bravo ragazzo, anche quando è sfancato da venti chilometri fatti di marcia, ha un pensiero gentile:"Questa vittoria - dice - la dedico alla mamma della mia ragazza, che sta molto male". La ragazza è quella di sempre, che Ivano sposerà in primavera e il secondo pensiero è anche quello normale. Con i soldi dei premi finirà i lavori per la casa che lo aspetta insieme con la promessa sposa.

È questa la "cifra" di Ivano Brugnetti: la normalità. Eppure non deve apparire un tipo normale a quei balordi o sperduti che al Parco Nord lo vedono nella bruma d'ogni mattina non camminare né correre, ma marciare, che dovrà fare loro l'effetto di quei tipi strani che inseguono un sogno, un pensiero, la strada, il sentiero è uguale. Forse un cane gli abbaia dietro, qualche volta, magari Ivano gli allunga una carezza, chissà.

Ne ha macinati di chilometri e di pensieri, prima di questi venti olimpici di Atene, e prima di quella dedica e di quel desiderio d'investire in un nuovo sogno, questa volta a due. Ne ha marciati quasi seimila l'anno, che in sette anni fanno il giro intero dell'Equatore con un pezzetto d'avanzo, forse quello per tornare a casa. Ne ha marciati, prima seguendo il fratello maggiore, dai vieni con me a farti due passi, perchè magari tutto comincia così, per caso, magari non puoi stare in casa da solo, perchè non ti ci lasciano, e magari ti incuriosisce capire perchè quel fratello grande e grosso, che forse è un mito per la tua età, si diverta così. A pensare, a faticare.

Certo, sotto il bellissimo tetto costruito da uno dei più celebri architetti-star moderni, Calatrava, per lo stadio di Atene, la vita deve aver ripreso di colpo il suo senso di marcia per Ivano Brugnetti: aveva l'ulivo in testa e l'oro al collo, giacchè era diventato il campione olimpico. il primo in quello stadio. Era tutto molto diverso da come,invece, era diventato campione del mondo nella cinquanta chilometri di marcia.

Quella volta né inni né oro, ché sul podio era stato d'argento; ma era lì che sonnecchiava quasi quando era squillato il telefono, più di due anni dopo la faticata:"Ehi, guarda che il russo l'hanno squalificato e il campione dl mondo sei tu". Brugnetti l'aveva sentito dire che poteva andare a finire così, ma ormai non ci pensava più, non ci faceva  più caso ad essere d'oro o d'argento nel firmamento della marcia. Anzi, della marcia stessa aveva una specie di nausea, ché cinquanta chilometri ormai erano diventati troppi a faticarli tutti e pensarli tutti metro dopo metro, piuttosto che non chilometro dopo chilometro. Va bene, sarò pure campione del mondo, avrà pensatogirandosi dall'altra parte del letto, ma in fondo la faccenda non gli cambiava la vita.

Se lo sentica dire spesso: com'è che non ce la fai più? Forse a poco più di vent'anni quel gran giorno di Siviglia era arrivato troppo presto. Il successo qualche volta ti brucia, che puoi conquistare di più se hai conquistato già il mondo? Forse ci vorrebbe una marcia sulla luna, arrampicarcisi. Ma quello non è possibile a nessun umano, nemmeno a Ivano Brugnetti. E allora, per non rimuginare certi pesnieri che alla fine potevano pure metterti l'angoscia come te la mette la marcia quando sei stanco e sfinito, ma sai che devi finire, puoi morirci sull'asfalto ma mica arrenderti, s'è dedicato ai motori, alle macchine, a saper tutto d'ogni congegno, anche quello più infinitesimale, quasi che il pensiero volesse marciare all'interno di quei meccanismi come avevano fatto le gambe sulle strade caldissime di Siviglia, e adesso non reggevano più oltre un certo limite di chilometri. Non era questione di gambe, ma di testa.

Per questa ha fatto quello che nessun marciatore fa: perchè se vai avanti con gli anni, allunghi la distanza, quasi che la gara stessa dovesse aumentare i propri numeri come fa il tuo corpo. L'uomo è esplosivo all'inizio della sua vita, in ogni campo, poi non esplode più, ragiona. Ma Brugnetti ha fatto il contario. Proviamo con la venti, che forse è meglio, e magari fino a quel limite posso farcela ancora.

Ce l'ha fatta, lentamente come la marcia vuole, che come dice qualcuno:"è un modo di correre per andare più piano". Ed eccolo olimpionico, eccolo confessare che "è finito un incubo", dopo essere stato sempre avanti nella gara ed aver avuto la certezza  della vittoria, raccontava, a un chilometro dalla fine, quando ha visto che lo spagnolo Fernandéz, attaccato, aveva qualche difficoltà. Lui no. Sapeva, sentiva, che cinque anni dopo Siviglia si poteva di nuovo assaporare il successo, anche più di allora, e non per largento o l'oro, che già fa una gran differenza perchè se vinci bene, se sei secondo hai perso; ma anche perchè qui erano le Olimpiadi, che valgono sempre più dei Mondiali, perchè sei sotto gli occhi davvero di tutto il mondo dello sport e non solo del tuo. Ma forse a lui interessavano pochi di questi sguardi. La ragazza, la famiglia, qualche amico di quelli che non ti lasciano quando la tua marcia non è trionfale.

Baciare la terra, prendere la bandiera: a volte ha l'aria di un rituale, Ivano non è da rituale. Forse avrebbe voluto farlo a Siviglia, quando il diritto sarebbe stato suo. Forse negli anni diciamo così bui avrà pensato mille volte che se non l'aveva fatto quella volta non l'avrebbe fatto mai più. Eppure i marciatori oltre al segreto del passo cui sono tecnicamente obbligati, hanno quello del pensiero.

C'è chi voleva togliere la marcia dal programma olimpico, perchè la marcia è fatica, è sudore, è sport di poveracci, meglio aprire i Giochi ai miliardari del golf  ed ai loro sponsor. Per fortuna non gli hanno dato retta, e un giubileo o quasi dopo il sorriso di Maurizio Damilano a Mosca si sono viste le lacrime di Ivano Brugnetti ad Atene. La vittoria ha volti diversi. 

Ultimo aggiornamento Martedì 27 Agosto 2019 10:56
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Ugo Frigerio (3) PDF Stampa E-mail
Giovedì 22 Agosto 2019 06:22

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Due documenti d'epoca: a sinistra, la copertina del libro di Ugo Frigerio, edito nel 1934, nel quale racconta la sua vita non solo di atleta. A destra, una copertina della «Domenica del Corriere», disegnata dal famosissimo Achille Beltrame, del luglio 1922, quindi a mezza strada fra i due Giochi Olimpici di Anversa e Parigi e delle tre medaglie d'oro, unico atleta italiano - parliamo di atletica leggera - ad aver conquistato tre ori olimpici

Era il 18 agosto 1920... Era il 21 agosto 1920...Stavolta non sarà un estraneo, un giornalista seppur bravo, a raccontarci come andò, ma lasciamo la parola direttamente al protagonista. Più che la parola, lo scritto: abbiamo preso spezzoni del racconto che Ugo Frigerio fece nelle pagine del suo libro «Marciando nel nome dell'Italia», pubblicato nel 1934. Niente altro, solo leggere.

Notarelle del redattore - Nel primo dei ricordi dedicati a Frigerio parlammo anche di marcia in generale, con piccole annotazioni. Per esempio scrivemmo che la marcia fece la sua apparizione nel programma olimpico a Londra nel 1908. Eh no, caro Archivio Storico, documentati meglio! La prima gara di marcia fu disputata ad Atene nel 1906, la distanza era di 1500 metri e vinse lo statunitense Bonhag. Ci inchiniamo a tanta sapienza, ma non facciamo ammenda. Il tipo che ha voluto fare la punta al...diciamo agli spilli, ignora che i Giochi del 1906, erano giochi di Casa Grecia che, meritoriamente, aveva voluto festeggiare i dieci anni della rinascita della Olimpiade. Ma quei giochi non fanno parte di quelli che conosciamo come Giochi Olimpici. Infatti furono chiamati «Intercalated Games», Giochi di mezzo, una pura e semplice rievocazione decennale, ma non furono assegnati titoli olimpici. 

Abbiamo invece reperito in uno dei tanti libri olimpici, una notizietta singolare, forse una favola metropolitana, delle tante che ammantano i personaggi sportivi. Del poliziotto di Brighton, George Larner che vinse le due gare a Londra nel 1908, si narra che avesse una abitudine un po' singolare per i suoi allenamenti. Pare che, quando le circostanze lo permettevano, si spogliava completamente e marciava in un parco quando non era aperto al pubblico, specialmente se era una giornata di pioggia.  Va a sapere...resta che ha vinto due titoli olimpici, riconosciuti.

Ma ce n'è un'altra carinissima. George Goulding, un canadese di nascita britannica, prese parte ai Giochi di Londra nel 1908: quarto nei 3500 metri di marcia e ventiduesimo nella maratona, maratona avete capito bene. Quattro anni dopo, a Stoccolma, ci riprovò e vinse i diecimila metri di marcia (terzo il nostro Altimani, ricordate?). Dopo la vittoria inviò un laconico telegramma a sua moglie:«Vinsi - George». La quale moglie, pochi giorni dopo, diede alla luce un pargoletto, cui fu posto nome George Beverly Olympic Goulding. Alla faccia di quelli, che decenni dopo, pensavano di essere orginali a mettere nome Olimpia, o Olimpico, ai propri figli, con gran diletto dei giornalisti che ne hanno fatto oggetto di interviste, in esclusiva, of course.

 

Due volte olimpionico

di Ugo Frigerio

"Camminai velocissimo, in rigidissima disciplina, e ordinatamente vinsi...

"Lo Stadio Olimpico si presenta...nella sua paurosa imponenza...fra i dodici concorrenti rimasti nella fila dopo la eliminatoria, e che ora dovevano disputare la finale sui diecimila metri, io rappresentavo l'Italia con Donato Pavesi. Non erroneamente la partenza fu sibito battezzata fantastica...la velocità iniziale è semplicemente sbalorditiva...basti dire che il primo chilometro è divorato in 4'28". L'americano Pearmann prende il comando subito dopo il primo giro, e lo segue l'australiano Parker...Pavesi è terzo. Per conto mio non abbandono il passo regolare e il ritmo usuale, anche quando al terzo chilometro mi vedo distanziato d'un centinaio di metri...Il gruppo di testa s'avvede di dover presto cedere, se tenta di proseguire con simile passo...Riprendo a guadagnare sensibilmente terreno senza interrompere la regolarità cronometrica del passo...Raggiungo così Pavesi e lo lascio alle spalle. Pearmann ha pensato di distaccare Parker, e rimane in testa; per ora avvicino soltanto quest'ultimo e lo vado tastando...Legno duro: c'è poso da fare con la semplice accetta, occorre una scura di tempra; e siamo al sesto chilometro. Bando ai complimenti! Attacco risolutamente l'australiano e lo sorpasso, dopo aver misurate le sue forze. Non c'è tempo da perdere. Marcio quindi all'assalto di Pearmann con l'intenzione di avvicinarlo subito e obbligarlo ad una estenuante difesa....L'atleta americano è fortissimo, e ha risorse da vendere...egli resta al suo posto e io al mio, così per due giri...dopo altri due giri spasmodici per Pearmann, passo all'offensiva di fondo, attaccando arditamente l'avversario...che sorpasso. Sono in testa a tutti e la folla che gremisce lo stadio è con me...filo rapido e contento...ormai, salvo qualche brutto incidente, la vittoria dovrebbe marciare al mio fianco. Provo una sensazione di benessere e un'inspegabile freschezza di forze; all'ultimo giro ne registro mezzo di vantaggio su Pearmann. Ancora poco più di cento passi e romperò il filo del traguardo. Eccolo! Sono pieno di gioia...sorrido a tutti, mentre la vittoria mi sorride. Alzo le braccia...il filo di lana è strappato...Viva l'Italia! Non ne potevo più dalla voglia di gridare a tutti i venti il nome della Patria vittoriosa...m'accorsiche prima ancora di attendere il responso della giuria, il boy scout incaricato di innalzare la bandiera della Nazione dell'atleta vittorioso aveva già fatto garrire al vento l'amato tricolore. Fu per me un attimo di indicibile orgoglio.

"Dopo qualche giorno di riposo, ripresi la lotta, gareggiando nuovamente nello stesso Stadio e per il medesimo titolo di campione olimpionico. Vinsi infatti, senza fatica, anzi con insperata facilità, la batteria e la finale della marcia su tre chilometri".

Ultimo aggiornamento Venerdì 23 Agosto 2019 15:05
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Ugo Frigerio (2) PDF Stampa E-mail
Lunedì 19 Agosto 2019 09:13

Era il 18 agosto 1920... Era il 21 agosto 1920...Come seconda parte delle vicende olimpiche di Ugo Frigerio vi proponiamo oggi un gustosissimo articolo che Gianni Brera scrisse, il 22 luglio 1984, alla vigilia dei Giochi Olimpici di Los Angeles. Seguì tre edizioni dei Giochi Olimpici estivi (1984 - 1988 - 1992) nel periodo in cui ha lavorato a «la Repubblica». Questo «pezzo» la letto nell'ottica della presentazione dell'evento olimpico. Abbiamo riprodotto la prima parte in cui scrive di Frigerio, con un brio, una vena ironica, che lo rendono piacevole sempre. C'è poi quella frase dedicata a Pino Dordoni, di cui alcuni di noi sono intransigenti custodi del ricordo del campione e dell'uomo, che non ci stancheremo mai di leggere.

Se un nostro socio ci metterà a disposizione il testo, pubblicheremo, forse, una terza parte dedicata a Frigerio, tutta dedicata ai suoi due successi del 1920. Questi giorni d'agosto, in anni diversi, sono stati generosi di metallo aureo per l'atletica italiana: oltre alle giornate di Frigerio, ricordiamo il 20 agosto 1984 Ivano Brugnetti ad Atene, 22 agosto 2008 Alex Schwazer a Pechino. Piano piano, parleremo anche di loro. Intanto godetevi Brera.

 

Ordine del Duce: dovete vincere cavalier Frigerio

di Gianni Brera

"Milanese di solido ceppo brianzolo, figlio di verduratto, tipografo principiante, per Dio sa quale sfizio dell'orgoglio fisico Ugo Frigerio prese a ciabattare secondo le norme della marcia, che stando alla eufemistica definizione ufficiale è «una successione di passi, mentre la corsa è una successione di salti». Purtroppo, la marcia è nella realtà un modo innaturale assai di correre a ginocchia bloccate. Per compensare questa smaccata incongruenza  dinamica, il povero cavaliere di San Francesco si contorce, sculetta e sgomita facendo normalmente un brutto vedere. In vita mia, un solo marciatore ho ammirato per superiore eleganza di stile: si chiamava e chiama Pino Dordoni. L'impreparazione dei tenici italiani gli fece malamente perdere una Olimpiade a Londra nel '48: venne sfiorato (n.d.r., incomprensibile questo termine in questo contesto, forse un errore di stampa? forse sta per schierato?) sui dicimila metri e non potè reggere la sistematica e spudorata corsa degli avversari. Avesse disputato la cinquanta chilometri, preparandosi per tempo a dovere, avrebbe mortificato tutti come fece a Bruxelles nel '50 (Campionai europei) e all'Olimpiade di Helsinki nel 1952. Ero anch'io all'arena quando Pino Dordoni faceva le ultime sgambate in attesa della partenza per Londra. Lo controllava dai margini il dottor Giorgio Oberweger, troppo intellingente per prendere sul serio anche un puzzapiedi a ginocchia bloccate. Vicino a me era Ugo Frigerio, che la felice ignoranza di Emilio Colombo aveva chiamato un giorno «il fanciullio di Anversa» (ma - ironizzava lui - se andavi giamò a casott!). Ugo vendeva formaggi scondo la miglior tradizione lombarda e prestava gratuitamente all'atletica i lumi della sua competenza: vide Pino Dordoni e subito esclamò:«In mano mia, vincerebbe i cinquanta chilometri!». Sentendolo, Oberweger si offese fieramente e Pino Dordoni non riuscì a nascondere il proprio sollievo...I fatti diedero piena ragione a Ugo Frigerio.

"Quando Venne chiamato il fanciullo di Anversa, nessuno pensava lontanamente alle sue possibilità olimpiche. Corricchiava sculettando secondo passabile decenza. Francesi e inglesi si squalificarono a vicenda: il ragazzino milanese restò senza avversari e venne proclamato campione dei tre e dei dieci chilometri. Poi, ci rifece gloriossissimamente sui dieci chilometri a Parigi nel '24, e incominciò a vivere secondo dilettantismo di Stato, che riparava all'indigenza di fondo con il poco denaro per la bistecca. Il cavalier Ugo seguitò a scarpinare come esigeva l'atletica popolare e nel 1932 venne addirittura selezionato per la cinquanta chilometri di Los Angeles. Non che andasse forte o che avesse conservato particolare fonda atletico: ma serviva il suo nome, sempre famoso, per trarre tatticamente in inganno gli avversari: sarebbe dovuto partire subito alla morte e portare a scoppiatura certa i favoriti. Allora, dalle retrovie, sarebbero comodamente emersi i due sculettatori più giovani e nel nome del duce avrebbero trionfato...

"Ugo Figerio prese immediatamente il largo a ritmo suicida e lo seguirono soltanto i più forti: i due poveri cristi in azzurro scoppiarono anche a distanza dei primi e si tolsero mestamente ai margini. L'accompagnatore in bicicletta pedalò sconfortato a riprendere Ugo, ormai in seconda posizione, e gli disse:«Cavaliere, le sorti della marcia italiana sono nelle sue mani (dire nei suoi calli sarebbe eccessivo)». Ugo era d'accordo che, una volta lanciata la gara su quei ritmi impossibili, si sarebbe ritirato in gloria: alla notizia che i due più giovani e boriosi sopracciò si erano stravaccati ai margini ebbe una smorfia amara: pensò alla famiglia, al duce (doveva!) e finì terzo con i piedi in fiamme. Le durarono le fiacche (o bolle o vesiiche) per mesi: il fanciullo di Anversa aveva scontatao i facili allori dei 18 anni con lo stoicismo del padre di famiglia".


Ultimo aggiornamento Giovedì 22 Agosto 2019 06:23
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Ugo Frigerio (1) PDF Stampa E-mail
Domenica 18 Agosto 2019 07:35

Era il 18 agosto 1920... Era il 21 agosto 1920...In quei due giorni la pagina bianca della storia della partecipazione italiana ai Giochi Olimpici dell'Era Moderna assunse sfumature dorate. Un giovanotto milanese, Ugo Frigerio, vinse le prime due medaglie d'oro olimpiche della nostra atletica. Un paio di medaglie, un po' meno preziose, erano state portate a casa in precedenza: d'argento, quella conquistata, negli 800 metri, ai Giochi di Londra, dal genovese Emilio Lunghi, uno dei più grandi atleti che l'Italia possa annoverare. La grandezza di Lunghi fu oscurata dalla vicenda rocambolesca del maratoneta Dorando Pietri, l'uomo che vinse ma perse la vittoria, come fu definito in un titolo del «Corriere della Sera». L'altra, di bronzo, sempre da un marciatore, sempre milanese, Fernando Altimani, a Stoccolma 1912.

Raccontiamo qualche dettaglio di quelle quattro giornate allo Stadio di Beerschot, ad Anversa, che ospitò la settima Olimpiade. Due le gare di marcia: prima un 10 mila metri (17 e 18 agosto) e poi un 3 mila (20 e 21). Prima giornata di quelle citate due serie della gara più lunga. Tutti e due gli italiani nella prima, Frigerio e Donato Pavesi. Vince nettamente il primo con un tempo strepitoso...ma mancava un giro alla corretta distanza, un classico dei giudici di atletica, sai quante ne abbiamo viste di 'ste cazzate...Quarto Pavesi, i primi sei classificati passano in finale, quindi entrambi i nostri. La gara che assegna le medaglie è un monologo di Frigerio, lo dicono i tempi: lui 48:06, lo statunitense Pearman 49:40, arrotondati. Pavesi, tanto per non smentirsi, squalificato, era abbastanza frequente.

Due giorni dopo, i 3 mila, due serie che qualificano, sempre i primi sei. Dominio azzurro: Pavesi nella prima vince con il primato olimpico, Frigerio si afferma nella seconda e abbassa il fresco record di sei secondi. Finale: trionfo di Ugo Frigerio che demolisce il primato olimpico, così come tutti e dodici i partecipanti, normalissimo, la distanza era poco o nulla praticata. Stessa solfa per Pavesi: quarto al traguardo, e poi tolto di classifica, altra tiritera che ha afflitto la marcia a tutti i livelli per decenni.

Marcia, parliamo di quella olimpica degli albori. Le prime distanze in una edizione ufficiale dei Giochi furono un 3500 metri e una dieci miglia, 16 chilometri novanta metri e spiccioli di centimetro. Dove? Londra. Quando? 1908. Chi vinse? Un britannico, tal George Larner, originario di Langley, nel South East England (meglio chiarire perchè con questo nome nel Regno Unito ci sono quattordici località, cittadine, quartieri). Larner, all'epoca era poliziotto a Brighton, i suoi superiori gli concessero il tempo per allenarsi e lui li ricambiò vincendo due titoli olimpici. Nel 1912, a Stoccolma, una sola distanza: i dieci chilometri. Successo di un altro George, Goulding stavolta, canadese, il suo tempo, 46:28.4, fu il primo registrato dalla Federazione internazionale nel suo libro dei primati del mondo della disciplina. Terzo, come ricordato qualche riga fa, Fernando Altimani.

1916, gli unici primati sono quelli delle centinaia di migliaia di morti della Prima Guerra Mondiale, in Francia e in Italia, macelleria di poveracci. I Giochi Olimpici tornano nel 1920, per noi sono i Giochi di Ugo Frigerio. 

(segue)

Ultimo aggiornamento Lunedì 19 Agosto 2019 09:18
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Alessandro Andrei PDF Stampa E-mail
Mercoledì 14 Agosto 2019 08:21

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Qui sopra: una bella copertina della rivista «Atletica», dedicata ad Alessandro Andrei. A destra, il risultato ufficiale completo della finale olimpica del lancio del peso al Coliseum di Los Angeles

Era l'11 agosto 1984... Quel giorno...Meglio quel tardo pomeriggio, sera incombente. Le dodici catapulte umane che avevano superato il turno di qualificazione la mattina, tornano in pedana alla ricerca di oro, argento e bronzo.In California, una terra che aveva conosciuto la febbre dell'oro, o corsa all'oro, stavolta non sportivo, un secolo prima, a partire dal 1849, per tanti poveracci una tragica epopea finita nell'alcol, nella miseria, nel delitto, nel suicidio. Il meraviglioso film, muto, prodotto e interpretato di Charlie Chaplin, nel 1925, dice più di tutte le parole; se volete, guardate questo traler. In quel pomeriggio avanzante dell'11 agosto 1984, anche per Alessandro Andrei the dreams became reality, i sogni divennero realtâ. Dopo il decimo posto ai Campionati d'Erupa dell'82. il settimo ai primi campionati del mondo '83, il coronamento di otto anni di carriera (dal 1976). Alessandro veniva da una terra di lanciatori di peso che avevano scritto grand parte dell'albo d'oro italiano: Aurelio Lenzi, di Pistoia, Angiolo Profeti, di Castelfiorentino, Silvano Meconi, di Firenze, come Andrei e come Marco Montelatici, che in quella finale olimpica californiana fu sesto.

Per ricordare quel successo vi lasciamo ad un articolo a mezzo fra il ritratto e la cronaca che, dopo i Giochi, Dino Pistamiglio scrisse per la rivista «Atletica». Dino era caporubrica al quotidiano torinese «Tuttosport», osservatore attento, pignolo, preparatissimo, di lui sempre ci impressionò la capacità di lucida analisi di una giornata di atletica iniziata alle 9 del mattino e finita a sera tarda: ti snocciolava prestazioni, tempi di passaggio, dettagli anche poco appariscenti come se li avesse annotati un attimo prima.

Alessandro

di Dino Pistamiglio

"Alessandro Andrei stringeva il fascio di rose rosse come se tenesse la mano di una ragazza dolce; il viso era ormai rilassato. Tutti i riti del dopo gara, dall'antidoping alle interviste, erano ormai esauriti. Restava ancora da abbracciare Roberto Piga, il suo allenatore, l'uomo col quale aveva intessuto, per più anni, un lungo discorso di passione e di lavoro con il lancio del peso.

"Un italiano, un toscano, un fiorentino di venticinque anni era campione olimpico del peso. Forse uno dei titoli più inattesi nella storia del nostro Paese, che ci descrive estrosi, veloci, resistenti ma raramente uomini forti.

"Trentasei anni dopo l'oro di Consolini nel disco a Londra, toccava a un altro lanciatore di casa nostra centrare il titolo più sognato da uno sportivo. C'era grande emozione, anche se Andrei teneva il pallino del discorso con distenzione, pronto alla battuta, al commento ironico ("Cosa faccio quando ho finito di allenarmi? Mi riposo dalle fatiche dell'allenamento...").

"Era la serata di Alessandro Andrei e Gabriella Dorio, quel sabato 11 agosto, che resterà impresso nella nostra memoria come il ricordo giusto di questo giovanottone. In un anno Alessandro il grande ha compiuto un salto di qualità che spaventa, portandosi da un valido 20.35 a misure tipo 21.50 che l'hanno proiettato, già alla vigilia olimpica, come un possibile protagonista. Maledetti e grandi toscani, l'hanno scritto in tanti, ma Andrei nel sorriso sempre contenuto, nelle affermazioni sincere e ragionate, pare quasi non avere le caratteristiche della sua città.

"Il personaggio forse non piacerà al pubblico di casa nostra, abituato alle dichiarazioni separate e alle polemiche da caffè, con il primo interlocutore uno che insulta l'altro, come forma abituale di dialogo.

"A noi invece garba, anche se frequenta forse una delle specialità più difficili dell'atletica, con quel gran contorno di lavoro in palestra, ore e ore di sollevamento pesi che spaventano e hanno rotto più di un campione.

"In un anno Alessandro da Scandicci è diventato olimpionico; ha riscattato tanti anni di battute sul rendimento agonistico dei pesisti della sua città, che hanno fatto cose grosse da Profeti a Meconi, ma che si sono anche persi nelle competizioni internazionali. Lui invece, nel grande prato verde del Coliseum, quel sabato 11 agosto, ci è sembrato sempre controllato, sempre sicuro, sempre consapevole di quel che si verificava sulla pedana del peso.

"Spara Carter, spara Wolf, spara Laut, ma il migliore è stato, fin dal primo lancio di prova, questo ragazzone che con la palla da 16 libbre quest'anno ci ha divertito un mondo, sparando lontano, in direzione Los Angeles".

Ultimo aggiornamento Domenica 18 Agosto 2019 07:51
 
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