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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Abdon Pamich (1) PDF Stampa E-mail
Martedì 29 Ottobre 2019 10:44

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Era il 18 ottobre 1964La sequenza di immagini, anche se un po’ sfocata e, per di più, compromessa dal fatto di avere al centro la piegatura della rivista da dove l’abbiamo riprodotta, è emblematica di quel momento: quando, all’arrivo della 50 chilometri di marcia ai Giochi Olimpici di Tokyo, Abdon Pamich sfogò tutta la sua tensione interna strappando il mitico filo di lana (allora esisteva ancora dando un senso particolare, per noi eroico, dell’arrivo) con un gesto imperioso, rabbioso. Era campione olimpico! E lo era dopo una gara difficile, complicata da una condizione fisica generale non ottimale (ne accenna Sandro Calvesi nelle sue note), e da complicazioni sorte durante le oltre quattro ore di competizione. Freddo e umido, «pioggia fitta e sottile» abbiamo letto nel dettagliato Rapporto del libro ufficiale C.O.N.I., che gli causarono problemi, definiti in modi diversi a secondo dei differenti commentatori, ma che, terra terra, furono «dolori viscerali», mal di pancia per dirla chiara a tutti, e tutti sappiamo qual è il rimedio. Non ricordiamo dove ma leggemmo che Abdon dovette uscire dal percorso, appartarsi per quanto poteva e scaricarsi dell’indesiderato fardello. Leggemmo che i giapponesini, capito il problema, si voltarono tutti a guardare altrove, lasciando l’atleta alle incombenze delle sue trippe. Non era ancora stata inventata quella pagliacciata che adesso chiamano «privacy», oggi si guarda nelle impudicizie di tutti, senza ritegno. I giapponesini si voltarono e fecero una specie di paravento umano alle necessità dell'atleta italiano.

Si era al 38simo chilometro, momento delicato per l'esito finale; Abdon pagò una manciata di secondi alla «ritirata», il britannico Paul Nihill, esperto di mille battaglie, che era dietro al «marciatore dei due mari», come qualcuno lo definiva (adriatico per nascita, tirrenico per adozione), colse al volo la inaspettata opportunità. Ma in un paio di chilometri, gradualmente, Pamich lo acciuffò e, progressivamente, si riportò avanti, fino al trionfo, di cui pagò le conseguenze quel povero filo di lana, destinato a più docili femminee mani di rammendatrice.

Vincent Paul Nihill, figlio di genitori irlandesi, impiegato di banca a Londra, iniziò come boxeur, sprinter e ostacolista, poi corse molti cross; solo nel 1960, dopo una operazione ad un ginocchio non potendo più correre, iniziò ad allenarsi per la marcia; nel 1963 era già secondo, sulle strade di Varese, nella 20 del Trofeo Lugano, poi Coppa del mondo IAAF, dietro a Ken Thompson, un mito, nominato Member of the British Empire dalla Regina Elisabetta. Nihill era marciatore di esperienza e non si fece intimorire dai pronostici che davano Pamich favorito, come da stretta logica. Lo impegnò senza tregua; la gara, dopo una velleitaria sparata di 15 km del russo Agapov, la fecero sempre loro due, Abdon leggermente avanti, Vincent Paul staccato di pochi secondi. Fino alla fine: uno degli arrivi più serrati (19”8) nella cronologia a quel momento della maratona di marcia; solo a Roma il margine fra l’inglese Thompson e lo svedese Ljunggren fu più esiguo (17 secondi). Nihill ebbe anche lui una carriera lunghissima: dopo Tokyo, Città del Messico, ritirato per collasso, dopo aver condotto fin dopo il 30simo km); Monaco, sesto nella 20 e nono nella 50; Montrèal, trentesimo nella 20. Fu il primo atleta britannico a gareggiare in quattro Olimpiadi. Fra il 1967 e il 1979, in 86 gare disputate, fu superato una sola volta.

Cinque le Olimpiadi per Abdon Pamich: Melbourne, undicesimo nella 20, quarto nella 50; Roma, terzo nella 50; Tokyo, campione olimpico nella 50; Città del Messico, ritirato nella 50; Monaco, squalificato nella 50.

Vi offriamo la lettura di brevi brani tratti dalla rivista «Atletica Leggera», numero speciale post olimpico. Il prof. Sandro Calvesi (che faceva parte della spedizione italiana con il presidente Giosuè Poli, il capo delegazione Giorgio Oberweger, i tecnici Lauro Bononcini, Pino Dordoni e Peppino Russo, sei, non le allegre comitive di oggi) fu richiesto dalla rivista vigevanese di fare il commento generale dei Giochi. Il nostro indimenticabile estroverso amico Salvatore Massara ricamò, sulle stesse pagine, le lodi di Pamich, con l'amore di uno che la marcia la amava visceralmente (lui, marciatore in gioventù, vincitore della prima edizione del Trofeo nazionale Ugo Frigerio). Noi vi diamo appuntamento nei giorni a venire per una seconda puntata di commenti, crediamo che Pamich meriti davvero di essere celebrato, in chiusura della nostra lunga ricostruzione dei campioni olimpici italiani.

 

Il capolavoro di Pamich in una giornata d'inferno

di Sandro Calvesi

Fare l'elogio di Abdon Pamich diventa superfluo, anche perchè meriterebbe un capitolo a sè. Ciò che di questo grandissimo campione è doveroso ricordare, è che la sua condizione fisica nel momento olimpico non era la più raggiante dell'arco stagionale. Nell'ultimo periodo Pamich aveva accusato noie fisiche che si ripercuotevano nel rendimento.

Con l'assistenza di Malaspina prima e poi di Dordoni, ma soprattutto sfruttando tutta la propria esperienza, Pamich ha saputo portarsi ugualmente al giorno della gara cun un tono generale che gli dava la sicurezza. La giornata infernale della maratona di marcia poteva essergli fatale: freddo, pioggia e vento hanno intaccato la sua efficienza, procurandogli noie intestinali; ma Abdon ha saputo reagire perfettamente, senza mai palesare gli attimi di crisi in faccia all'avversario, stringendo i denti e sorridendo. Nella sua gara Pamich ha compiuto un capolavoro di tencica, di psicologia, di tattica e di eroismo fisico.

Mai medaglia è stata più meritata: la vittoria è toccata ad un grande atleta che ha saputo costruirsela attraverso anni di lavoro e di sacrifici, sorretto da una fede sportiva impareggiabile.

 

Pamich: la medaglia era sua di diritto

di Salvatore Massara

...prima di celebrare la marcia trionfale di Abdon Pamich a Tokyo.

Il marciatore fiumano ha dovuto, per vincere, disputare la più veloce 50 km. internazionale della storia atletica....Si temeva che nella 50 km. olimpica di Tokyo Abdon Pamich, essendo il grande favorito, ed essendo l'unico italiano in gara, potesse subire la tattica degli avversari più agguerriti. In effetti i sovietici hanno tentato di fare la tattica, facendo partire allo sbaraglio Agapov. Il loro discorso semplicistico sarà stato presso a poco questo: «Pamich si lancerà nella sua scia e scoppierà, così al momento giusto usciranno fuori Vedyakov e Liungin».

La gara si è snodata con una temperatura piuttosto fredda (14 gradi) e sotto il martellare incessante della pioggia. Agapov è transitato ai 10 km. in 47'50", inseguito da presso dall'indomabile Pamich (21" di distacco). Il sovietico ha insistito nella sua tattica ed è passato ai 15 km. in 1.11'52". Pamich non è caduto nel tranello e lo ha seguito a 41", perdendo 20" in 5 chilometri. Il sovietico, ormai stroncato, cedeva di lì a poco ed ai 20 km. l'azzurro era in testa in 1.37'33", seguito dal tedesco Hohne, dall'inglese Nihill e dal boccheggiante Agapov. Ormai Pamich aveva la gara in pugno. Si rivelava avversario grandissimo l'inglese Nihill. Ma l'allievo di Malaspina doveva veramente sudare la vittoria olimpica che inseguiva dalle Olimpiadi di Melbourne. Poco dopo metà gara (2.27'56" ai 30 km.) Pamich aveva dei disturbi allo stomaco per un rifornimento mal combinato (bevande fredde). Stoicamente superava la crisi ed al 40esimo km. Nihill era irrimediabilmente staccato: 4" al 40esimo km., 6" al 45esimo km. e 19"8 all'arrivo.

Una vittoria veramente voluta, coraggiosamente sofferta, tenacemente inseguita. Una vittoria dello stile e della classe, dell'umiltà e della dedizione. Pensare che questo meraviglioso successo olimpico, l'unico dell'atletica azzurra a Tokyo, è frutto dell'indomita passione di questo magnifico marciatore e del suo fedelissimo trainer Giuseppe Malaspina! A Tokyo però anche un grande campione del passato, un altro inimitabile stilista della marcia mondiale, ha sofferto e seguito con grande amore la vittoriosa galappata di Abdon Pamich. Intendiamo parlare di Pino Dordoni, tecnico federale della specialità, che ci auguriamo possa insegnare alle sparute nuove leve tutti i segreti di questa umile e pur nobile disciplina atletica.

Ultimo aggiornamento Venerdì 01 Novembre 2019 21:23
 
Un temporaneo black out ha reso inagibile il sito: il problema è superato PDF Stampa E-mail
Lunedì 28 Ottobre 2019 13:44

Nella notte tra sabato e domenica e fino a mezzogiorno di oggi il nostro sito ha avuto un momentaneo black out. Problema superato. Riprenderemo la nostra normale attività di pubblicazione di materiali storico - statistici quanto prima. Ci scusiamo con i nostri utenti e li ringraziamo per la comprensione.

Ultimo aggiornamento Lunedì 28 Ottobre 2019 13:44
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Gelindo Bordin PDF Stampa E-mail
Sabato 26 Ottobre 2019 08:00

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Due copertine della rivista «Atletica Leggera» dedicate a Gelindo Bordin. A sinistra: poco dopo l'arrivo della gara olimpica a Seoul, abbracciato dal massaggiatore Rocchetti, dietro, con gli occhiali scuri, si intravvede il giornalista Salvatore Massara, scomparso qualche anno fa. A destra: son passati due anni, siamo in ottobre 1990, Gelindo, fresco del secondo titolo europeo, trionfa nella maratona di Venezia. Osservate le mani dell'atleta, con entrambe indica «tre», le vittorie di quell'anno: in aprile nella famosa maratona di Boston, in settembre i Campionati d'Europa a Spalato, e infine Venezia.

 

Era il 2 ottobre 1988…Quella domenica, un po' umidina, i più incazzati furono i 36 mila poliziotti coreani - il numero lo diede il Comitato Organizzatore - che dovettero fare servizio lungo il tracciato della corsa di maratona, impalati, sempre controllando quella fetta di pubblico che avevano di fronte. Il fesso che salta le transenne e crea scompiglio non fu una novità di Atene 2004. La storia della maratona olimpica ha altri episodi di «infiltrati», di imbroglioni, di giocherelloni. Fin dalla prima edizione: l'australiano Edwin Flack in una intervista negli anni '70 affermò che qualche concorrente non aveva corso tutta la distanza. A St. Louis, nella 1904, nella sarabanda disorganizzativa, un concorrente, Fred Lorz, un newyorchese, arrivò allo stadio prima di tutti gli altri, accolto da trionfatore, fece perfino una foto con Miss Alice Roosvelt, figlia del Presidente degli Stati Uniti. Poi si scoprì che il furbastro aveva corso meno di dieci chilometri, era salito su una comoda automobile di amici, si era fatto scorazzare per una quindicina di chilometri e poi aveva ripreso a correre. Anche senza andare tanto indietro nel tempo: Monaco di Baviera 1972, anche i presunti perfetti tedeschi si fecero infinocchiare da un burlone che, eludendo i poliziotti della sicurezza, entrò per primo nello stadio qualche minuto prima dell'americano Frank Shorter, il quale, poveretto, fu accolto da una bordata di fischi, e non capiva perchè.

Vabbè, lasciamo da parte gli imbroglioncelli, e occupiamoci di quelli veri. Gelindo Bordin rientra in questa categoria a pieno titolo, per aver vinto una delle più belle maratone olimpiche, anzi, azzardermmo, in assoluto. Come andò quel giorno lo raccontò l'autore dell'articolo che pubblichiamo qui sotto, articolo che trovò accoglienza sul numero 347, novembre 1988, della rivista «Atletica Leggera». Inutile ripeterci, solo una considerazione aggiuntiva. Non solo fu una maratona epica per davvero, ma fu, forse, la gara più completa quanto a qualità. C'erano tutti, ma proprio tutti i migliori, davvero la crème de la crème degli eredi del fantasioso Fidippide. Gelindo strizzò ogni stilla di energia, fisica e nervosa, e, nella caciara italian style che si montò subito dopo il suo arrivo sulla pista dello stadio, con la partecipazione di giornalisti, allenatori, massaggiatori, famigli, infiltrati, ambasciatrici italiche con tanto di copricapo appariscente e inconfondibile, disse una sola frase che la dice lunga:«Sono così stanco che non riesco neppure ad essere felice». 

Partirono in 118, arrivarono in 98, oltre a Bordin, l'Italia schierò Orlando Pizzolato (sedicesimo) e Gianni Poli (diciannovesimo), quel 1988 non fu il loro anno migliore.

 

 

Il trionfo di Bordin

di Ottavio Castellini

 

Un capolavoro. Non ho trovato altro termine per definire la corsa di Gelindo Bordin alla conquista dell’alloro olimpico di maratona. Un capolavoro di intelligenza, tattica e agonistica, un capolavoro di preparazione. E in quest’ultimo aspetto va accomunato Luciano Gigliotti, l’uomo che in quattro anni ha saputo costruire questa bellissima macchina da maratona. Un meccanismo che era stato rodato in precedenza come una Formula Uno.

Gelindo Bordin è il ventunesimo campione olimpico di questa specialità, che è nata contemporaneamente ai Giochi Olimpici moderni e forse è l’essenza stessa dei Giochi, con il suo mito, il suo fascino, la sua epopea. Maratona e Giochi Olimpici sono le due facce della stessa medaglia. Il campione veneto iscrive il suo nome dopo quelli di uomini dai nomi indimenticabili: Spiridon Louis, Hannes Kolehmainen, Emil Zatopek, Alain Mimoun, Abebe Bikila, Mamo Wolde, Frank Shorter, Waldemar Cierpinski, Carlos Lopes. E così citando facciamo torto a quelli altri che hanno vinto la gara di maratona in anni lontani e dai nomi meno celebri. Ma uno vogliamo ricordarlo. Lo conoscono tutti come Kitei Son, giapponese. Il suo nome è in realtà Kee Chuang Sohn, coreano di nascita, di un pese che adesso si troverebbe al Nord. Vinse nel 1936, a Berlino, in piena epoca nazista, vinse sotto i colori del Sol Levante che allora era padrone del suo Paese. E proprio Kee Chung Sohn ha portato la fiaccola olimpica dentro lo stadio di Seul, sollevando un’ondata di commozione.

Bando ai ricordi, torniamo all’attualità. A questo grande Bordin che ha compiuto un’impresa che in questo caso non è esagerato definire storica. Pochi infatti, nella storia della maratona, sono riusciti a dare alla propria carriera una continuità di risultati come quella che ci offre il maratoneta di Longare. È quasi banale ricordare le tappe di questa carriera: titolo europeo due anni fa a Stoccarda, medaglia di bronzo ai Campionati Mondiali l’anno scorso a Roma; campione olimpico adesso. E il tutto in meno di quattro anni, esattamente quattro anni meno cinque giorni. Esordì come maratoneta a Milano il 7 ottobre 1984, è diventato campione olimpico il 2 ottobre 1988. E ha vinto questo titolo alla nona maratona della sua vita (lasciamone perdere una ufficiosa).

Un ruolino di marcia straordinario. Ma ancor più straordinario è, secondo me, il modo col quale Bordin è arrivato a questo traguardo. Non ha sbagliato una mossa, la sua corsa è stata perfetta. È stato riparato quando era il momento di stare accorti e coperti; è stato il promotore dell’attacco decisivo, cogliendo il tempo giusto, come un direttore d’orchestra. Senza essere superman. Infatti anche lui ha avuto la sua brava crisi, ha dovuto stringere i denti, ha dovuto cedere all’attacco di avversari di gran lignaggio. Ma anche in questa occasione ha avuto il merito, l’intelligenza di amministrare le sue forze con grande oculatezza, segno di una padronanza del proprio corpo e delle proprie reazioni che solo una preparazione perfetta riesce a dare. E quel finale, quei 1.800 metri finali sono stati il capitolo conclusivo di una storia agonistica difficile da raccontare con altre parole.

Tutto questo in un contesto tecnico elevatissimo. Voglio subito affrontare il tema delle assenze. Assenze che si limitano agli etiopi, i protagonisti della prima parte della stagione, con Belayneh Dinsamo che ha sfiorato il mitico «muro» dei 42 km corsi a 3 minuti al km, stabilendo la nuova miglior prestazione mondiale in 2:06:50. Certo mancava Dinsamo e mancava almeno un altro etiope di gran valore: Abebe Mekonnen. Ma questo rientra nella normalità del gioco dei presenti e degli assenti. E poi ci può essere un paragone indiretto con Salah, battuto da Dinsamo a Rotterdam in occasione del record e battuto da Bordin a Seul. Ancora: l'anno scorso a Roma Mekonnen c'era e finì per ritirarsi. Pure Bordin c'era e finì invece terzo. Dunque...

Per il resto sulle strade coreane c'era tutto quanto di meglio la maratona mondiale può mettere in campo in questo momento. I vecchi che hanno cominciato la fase di discesa come Seko e de Castella, i nuovi in fase rampante come gli Hussein, i Wlkiihuri, i Moneghetti. Oppure i vecchi marpioni cone Ikangaa, Salah, Spedding. Oppure i grandi regolaristi come Nakayama (quattro prestazioni a 2:08). E in questo campo Bordin ha svettato dalla cintola in su, come un gigante. Ripeto, giudico la sua gara perfetta sotto ogni aspetto. E non è stato facile, anche perchè Bordin in questa occasione ha stravolto la sua mentalità agonistica, affrontando l'impegno con atteggiamento mentale profondamente mutato. Non più la corsa in rimonta, tranquilla all'inizio e galoppante nella seconda parte, ma gara subito gagliarda fin dalla partenza, con i primi, con quelli che volevano e potevano puntare al podio. Magari anche gara con i velleitari, prendendosi qualche rischio. Un modo di correre nuovo, che presupponeva una grande sicurezza e una altrettanto grande tranquillità e fiducia nei propri mezzi, doti che si acquistano solo con la consapevolezza di avere la preparazione giusta.

Bordin si è ritrovato alla fine a dover fare i conti ancora con due compagni di viaggio che aveva già avuto un anno fa a Roma. Allora fu il keniano Wakiihuri che, piazzando un km da 2:54, mise sulle ginocchia Salah. Stavolta è stato l'uomo di Gibuti che ha tentato la sorte con un km da 2:55. Bordin ha momentaneamente mollato la presa, per poi riprenderla nel momento in cui le forze abbandonavano i suoi avversari. Pochi i precedenti - forse nessuno - di una rivincita a tre a distanza di così poco tempo. Mi viene in mente una frase di Gelindo Bordin nella conferenza stampa del giorno dopo, nella sede allestita dal suo sponsor. Bordin, raccontando la sua vita, ad un certo punto ha detto: “Sono un geometra, anzi ero un geometra ed ero anche bravo». Geometra, Bordin lo è ancora, solo che adesso, invece di costruire chiese ed alberghi (a Verona ci sono esempi di lavori diretti da lui), costruisce corse podistiche. C’era un bellissimo progetto disegnato dall’architetto Luciano Gigliotti che Gelindo Bordin ha portato a realizzazione come direttore dei lavori. È stato lui stesso infatti a dirigersi verso la realizzazione dell’architettura più bella della sua vita, che lo ha portato su un podio olimpico situato in mezzo ad uno stadio.

 

Mi viene in mente una frase di Gelindo Bordin nella conferenza stampa del giorno dopo, nella sede allestita dal suo sponsor. Bordin, raccontando la sua vita, ad un certo punto ha detto: “Sono un geometra, anzi ero un geometra ed ero anche bravo». Geometra, Bordin lo è ancora, solo che adesso, invece di costruire chiese ed alberghi (a Verona ci sono esempi di lavori diretti da lui), costruisce corse podistiche. C’era un bellissimo progetto disegnato dall’architetto Luciano Gigliotti che Gelindo Bordin ha portato a realizzazione come direttore dei lavori. È stato lui stesso infatti a dirigersi verso la realizzazione dell’architettura più bella della sua vita, che lo ha portato su un podio olimpico situato in mezzo ad uno stadio.

Ultimo aggiornamento Martedì 29 Ottobre 2019 10:50
 
I Campionati mondiali di atletica a Doha nei commenti di Trekkenfild PDF Stampa E-mail
Martedì 15 Ottobre 2019 07:39

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Nove pagine monografiche, il nuovo numerato 75, di «Trekkenfild», voce libera dell'atletica italiana, e del T&F in genere. Verrebbe da dire, sorridendo, la «Radio Londra» dell'atletica. Ma ci sarebbero due pericoli. Uno: che un bel 70 %, almeno, si chiederebbe "Radio che?" visto l'elevato grado di cultura storica generale. L'altro: non vorremmo mai che i nostri amici Daniele e Walter venissero scambiati per trombettieri del nuovo British Commonwealth World Athletics Power. Commenti con un mix di firme di atleti, ex atleti (vale il detto: una volta atleti, sempre atleti?), giornalisti. Leggete, leggete, leggete. D'accordo? Non d'accordo? Fa lo stesso, voi leggete, non avrete che da guadagnarne. È un bell'esercizio per il cervello.

Ultimo aggiornamento Mercoledì 16 Ottobre 2019 15:33
 
L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Livio Berruti PDF Stampa E-mail
Martedì 08 Ottobre 2019 15:00

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Questa foto è datata 1957: Livio Berruti, solo davanti a tutti, vince i Campionati Studenteschi sui 100 metri, ad Alessandria

Era il 3 settembre 1960…un altro dei giorni indimenticabili dello sport italiano: Livio Berruti, elegante ventunenne piemontese, vince la finale dei 200 metri sulla pista dello Stadio Olimpico di Roma. Allora ne aveva 21, di anni, pochi mesi fa ha festeggiato gli 80, attorniato da tanti amici della Università di Torino, e non solo. Del genetliaco di Livio questo sito ha diffusamente trattato, cercando di riportare in superficie i tanti ricordi di quella giornata, anzi giornate, tutto l’iter agonistico dalle batterie alla finale. Oggi ci sembra superfluo ritornare sull’evento in sé. Abbiamo invece un conto in sospeso con i nostri lettori, e del quale ci scusiamo cercando di riparare, o meglio di saldarlo. Ricordate? Concludevano un ricordo a Livio dedicato con queste parole: “Che ne dite? Ci fermiamo qui? Da leggere ne avete. La prossima volta vi racconteremo il resto della stagione 1956 del futuro campione olimpico”. Trattavasi della stagione 1956, quella che rivelò il talento del giovane studente. Promessa da marinaio, il racconto di quell’anno restò lì, monco. Vediamo di completarlo, aggiungendo un altro piccolo mattoncino alla iniziale carriera del nostro indimenticabile campione olimpico.

Il passo seguente porta la data del 22 luglio; siamo a Biella, al Campo «Lamarmora», in scena i Campionati piemontesi. Dice la cronaca che «il tempo è discreto, la pioggia smette di cadere quando le gare stanno per avere inizio, fa fresco, c’è un po’ di umidità». L’ultimo capoverso dell’articolo è riservato ai 100 metri. Vi si legge: “Nella finale dei 100 tutti gli occhi sono puntati su Berruti e Ghiselli: vincerà l’anziano o il giovane campioncino della Lancia? I due balzano fuori dalle buchette simultaneamente: poi il lanciotto si avvantaggia, agli 80 metri è primo; ma Ghiselli non si dà per vinto, scatta rabbiosamente, e affianca Berruti, lo supera sul filo di lana: i cronometri segnano per entrambi 10”9. Ha dunque vinto l’anziano, ma Berruti ha confermato di essere più di una promessa».

Più o meno negli stessi giorni, la Presidenza della FIDAL comunica i nomi degli atleti invitati ai raduni collegiali estivi previsti in funzione degli incontri internazionali: per gli juniores si tratta di un Italia – Francia, ad Aosta, il 12 agosto. Le due squadre si erano già confrontate l’anno prima a Chambery, primo incontro della nostra Nazionale giovanile, che poi si chiamerà juniores (la categoria venne istituita nel 1955). Livio è inserito nel gruppo che si prepara a Schio. Subito dopo arriva la convocazione per l’incontro di Aosta, la prima della carriera per lui. Per 100, 200 e 4x100 ci sono anche Antonio Aiello Belardi, Pier Giorgio Cazzola, Nerio Fossati, Franco Galbiati, Vittorio Marcora e Sergio Sergian. Nello stesso numero (il 20) del settimanale della FIDAL viene pubblicata la prima tabella ufficiale dei primati italiani juniores, aggiornata al 26 luglio 1956: ci ritroviamo i nomi di Scavo, di Luigi Conti, di Roveraro, di Bravi, di Cavalli, di Raffaele Bonaiuto, che aveva appena fatto più di 70 metri col giavellotto, primo italiano oltre questa barriera. A Schio (4 agosto) si fanno gare di collaudo con gli atleti presenti: Berruti corre nuovamente in 10”9 e raddoppia sui 200, 22”2.

«Splendida vitalità dei nostri juniores» titolo del giornale «Atletica» per il commento di Sergio Gatti all’incontro Italia – Francia, dominato dagli azzurrini per 100 a 81. Protagonista l’indimenticato Enzo Cavalli che sale a 14.98 nel triplo, a pochi centimetri – tre – dal primato italiano assoluto di Franco Bini. Berruti viene schierato sui 100: vince Galbiati, 10”7. Scrive Gatti: “Tra i velocisti va messa in rilievo la prova del non ancora diciassettenne Berruti, alfiere della squadra, che, col suo 10”9, ha permesso un prezioso doppietto sui 100 metri». Poi corre la staffetta e Gatti commenta: «…ha corso in grande tranquillità e molto del merito è stato di Cazzola e di Berruti, autori di due frazioni che hanno praticamente risolto a nostro favore la gara…». Tempo 41”9, Livio era in terza frazione.

Il commentino di Bruno Bonomelli su l’«Unità» del 13 agosto: «Metri 100. Con una veloce, decisa partenza, Galbiati ha imposto la sua superiorità nella corsa veloce, stabilendo altresì, con 10”7/10, il proprio limite personale. Vivace la prova di Berruti (10”9/10). In ombra i francesi».

Una digressione per ricordare i nomi di due atleti che abbiamo incontrato nel nostro lungo cammino nel mondo dell’atletica: il bresciano Angelo Baronchelli, che diventerà un buon astista, forte come una roccia, in quella gara terzo con 3.40; l’esile, nervoso, Enrico Condi (Diana Piacenza) convocato all’ultimo momento per i 400 ostacoli, anche lui terzo, aveva corso in 57”6 (e 16”1 sugli «alti») il 3 agosto a Brescia. Dei francesi l’astista Balastre, il discobolo Alard, il giavellottista Syrovatski, costui, gran talento, fu incluso nella squadra olimpica per Melbourne, ma uscì in qualificazione.

Sull’onda della Nazionale giovanile, Berruti continua la stagione sulla pista del nuovo Campo Scuole di Cremona (26 agosto) dove ottiene il suo primo 10”8 (in batteria) e poi un altro 10”9, quinto in finale. Corre anche una frazione di 4x100 con una Squadra B, con Marcora, Morini e Cazzola.  Enzo Cavalli fa il record italiano del triplo: 15.24. Passano pochi giorni e viaggia a Padova dove si disputano i Campionati nazionali Seconda Serie per il raggruppamento Nord: ancora un 10”8 in semifinale e un 10”9 in finale. Quanti nomi conosciuti: G. Battista Paini, bresciano, allievo di Bruno Bonomelli, primo negli 800 e secondo nei 1500, Franco Volpi, altro bresciano, primo nei 5000 e terzo nei 1500, Tito Morale primo e Nereo Svara secondo sui 400 ostacoli, Carmelo Rado primo nel disco, Carlo Lievore primo nel giavellotto, Antonio Begni, bresciano, (deceduto lo scorso mese di gennaio) quinto nella marcia, l’uomo che ha formato tanti giovani marciatori, un vero gentleman.

«Campionati d’Italia in edizione – record sulla pista e sulle pedane delle Olimpiadi 1960» titola «Atletica». Il ragazzino Berruti così così, ma ha sulle spalle una lunga stagione, e corre 100 e 200. Quinta batteria: Lombardo 10”8, D’Asnasch 11”0, Berruti 11”1; prima semifinale: Gnocchi 10”5, Ghiselli 10”8, Livio 11”0. Doppia distanza: terza batteria: Archilli 22”2, lui 22”4; prima semifinale: Gnocchi 21”9, Riosa 22”1, Livio 22”2 (personale eguagliato), davanti a quel Pollini vigevanese le cui scarpe erano, e sono, un must nel mondo. Non ci mettiamo a curiosare in quel Campionato, ne avremmo troppe da raccontare.

Ma per Livio non è ancora finita. Il 14 ottobre fa una nuova volata di 100 metri, ad Ivrea, nella quarta prova del Gran Premio Piemonte: 10”9.  Il 21 ottobre, a Roma, Gran Premio delle Regioni: batteria 11”1, finale, primo, 10”9, come il trentino Nardelli (campione nazionale CSI, 10”9, qualche giorno prima a Milano) che lo impegna. Per Livio anche la 4x100 del Piemonte, batterie (43”0) e finale, seconda (43”3). Il tempo di 10”8 gli vale la Palma di 1º Grado della FIDAL.

Ultimo aggiornamento Domenica 20 Ottobre 2019 08:24
 
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