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Francia - Italia 1937: gli azzurri hanno in squadra un gigante, Mario Lanzi PDF Stampa E-mail
Sabato 12 Settembre 2020 13:06

12 settembre 1937. Da pochi giorni (giovedì 2), in un parco di Ginevra, mentre passeggiava con sua moglie, il barone Pierre de Coubertin salì sull'ultimo autobus della sua vita. Il 12 era domenica, ci ha suggerito Monsieur de Lapalisse. Quel giorno, allo Stadio Yves de Manoir, a Colombes, fuori Parigi, le squadre nazionali di atletica di Francia e Italia si affrontarono per la settima volta. In predenza le fortune erano state alterne: una volta vinco io, una volta vinci tu. Di quella domenica settembrina di 83 anni fa ci racconta in una manciata di righe qui di seguito Augusto Frasca, per rimarcare l'impegno profuso quel giorno da Mario Lanzi che affrontò in un tempo ristretto ben tre corse, 400, 800 e staffetta 4 x 400. Lanzi, aggiungiamo noi, non ha mai fatto mancare il suo apporto incondizionato durante tutti gli incontri della Nazionale cui prese parte. A corredo del testo una riproduzione parziale dell'articolo della rivista federale «Atletica» che riferisce, in maniera abbastanza stringata, l'esito dell'incontro.

 

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Mario Lanzi, un fenomeno (d'altri tempi) tutto italiano

Lo spunto nasce da un'analisi comparativa effettuata da Giorgio Cimbrico – inesauribile produttore di scritture atletiche di altissima qualità, tra il meglio della storia ultracentenaria della disciplina e del giornalismo – in occasione dell'impresa fenomenale realizzata da Karsten Warholm, il 23 agosto, sulla pista di Stoccolma: nel giro di novanta minuti, 46.87 nei 400 ostacoli, nuovo (suo) primato europeo, a nove centesimi dal 46.78 mondiale di Kevin Young, e 45.05 sui piani. Avendo in soccorso una vecchia pagina di «Atletica» del 1937, di lì a risalire ad un fenomeno di casa nostra il passo è stato breve. Altri contesti. Ma valori assoluti. E, per quanti non sanno, l'evocazione è d'obbligo.

Il 12 settembre di quell'anno si svolgeva il trentottesimo incontro della Nazionale maschile. Località, Parigi, stadio, Colombes, avversari, i (falsi) cugini. Per la felicità di quel gran signore fiorentino che era e fu il marchese Luigi Ridolfi Vaj da Verrazzano, presidente federale, e di Boyd Comstock, direttore tecnico statunitense d'origini indiane ingaggiato in Italia, per nostra fortuna, dalla primavera del 1934, prevalsero gli azzurri. Di due punti, 75 a 73. Vinsero Orazio Mariani, 10.4, Gianni Caldana, 110 in 14.9, Luigi Beccali, 4:00.3, Giuseppe Beviacqua, 14:58.6, Arturo Maffei, 7.63, Bruno Testa, 61.29 in giavellotto, 4x100, Mariani, Caldana, Elio Ragni, Tullio Gonnelli, stessa formazione seconda classificata a Berlino alle spalle di Owens e compagni, in 41.3. Mario Lanzi, l'uomo di Castelletto sul Ticino, l'uomo che solo per ingenuità tattica aveva perso un titolo olimpico (1936) e uno europeo (1934), scese in campo in tre occasioni. Tre occasioni, tre affermazioni: 400 in 49.2, 800 in 1:54.3, staffetta 4x400, con le squadre in perfetta parità, 72 a 72, con una sua ultima frazione che affidiamo alla fantasia, con l'atleta travolto e portato in trionfo dai compagni di squadra dinanzi a transalpini basiti. Diretto da Henry Desgrange, antico detentore in fine di Ottocento di numerosi primati mondiali di ciclismo, avanti di lasciare il testimone all'Équipe, il quotidiano parigino «L'Auto» il giorno successivo titolava: Lanzi bat la France. Raramente, nel giornalismo, titolo fu più onesto.    

Ultimo aggiornamento Martedì 15 Settembre 2020 10:34
 
Un sentito ringraziamento alla Amministrazione comunale di Pianoro PDF Stampa E-mail
Venerdì 11 Settembre 2020 13:03

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Questa fotografia è la riproduzione di quella pubblicata il 25 ottobre 1913 sulla rivista «Lettura Sportiva»: ritrae l'atleta Manlio Legat, campione del salto con l'asta nei Campionati della Federazione Ginnastica Italiana ( 3 metri e 20 a Genova il 19 ottobre, davanti a Garimoldi e Butti). Quell'anno Legat aveva saltato 3.30 il 25 maggio a Milano, vestiva i colori della Sempre Avanti Bologna

Scorrendo il gigantesco materiale conservato da Bruno Bonomelli si trovano decine e decine di buste o di cartoline postali (come si usava anni addiero) timbrati dagli Uffici Anagrafe di Comuni, grandi e piccoli, di tutta Italia. Erano le risposte che questi uffici davano allo storico bresciano aderendo alle sue richieste di informazioni anagrafiche su atleti dei primi decenni del secolo scorso, o anche prima, per completare le loro biografie. Non sempre quelle carte davano le informazioni, molti impiegati si trinceravano dietro alla tal legge che proibiva di fornire a estranei informazioni di tal tipo. Si può comprendere. Altri, più duttili e capendo lo scopo, sportivamente innocuo, di tali richieste, fornivano quanto richiesto da Bonomelli, che quasi sempre univa in francobolli l'importo per la risposta, spesso esplicitamente richiesto dagli impiegati. Due i dati che interessavano: la data di nascita e quella di morte, spesso solo la seconda, a volte il chiarimento di un nome di battesimo, oppure la località di nascita o di morte. Scorrendo queste antiche carte, abbiamo avuto la prova palpabile del differente approccio dell'impiegato nelle mani del quale era finita la richiesta. 

Un altro che continuò la strada intrapresa da Bonomelli fu Marco Martini. Non a caso fu attento e rispettoso discepolo del maestro rovatese. In genere, questi dati vengono poi ripresi e copiati acriticamente dagli orecchianti del nostro sport. Raramente abbiamo avuto fra le mani pubblicazioni che riportassero data e località di morte. 

Detto tutto questo, veniamo a un caso attuale che ci ha dato soddisfazione. Un paio di mesi fa abbiamo pubblicato la storia della famiglia Legat, famiglia triestina spostatasi a Bologna e lì attiva nella disciplina della ginnastica, come normale in quei primi anni del Novecento. Uno dei figli Legat, Manlio, fu ottimo atleta: asta, alto, prove multiple, tanto che partecipò ai Giochi Olimpici di Stoccolma 1912. Di Manlio si conobbero due date di nascita, discordanza poi chiarita proprio da Bonomelli. Il poveretto fu fatto morire durante la Grande Guerra, ma non era vero, per fortuna sua, ferito ma vivo. Quello che nessuno seppe mai quando e dove morì, né Bonomelli né Martini, né la superba pubblicazione della Virtus Bologna «Il mito della V nera». Un nostro socio puntiglioso, dopo aver letto la bella narrazione di Alberto Zanetti Lorenzetti sulla famiglia Legat, si è messo di buzzo buono per cercare di trovare questa informazione.

L'ha trovata: Manlio Legat morì a Bologna il 17 dicembre 1955. Il tenace amico nostro ci ha chiesto di scrivere qualche riga per ringraziare pubblicamente gli uffici del Comune di Pianoro per la disponibilità dimostrata. Dalla signora sindaco Franca Filippini alla sua segreteria, fino alla responsabile dell'Ufficio Servizi Demografici e Anagrafici, signora Alessandra Poli. È grazie alla loro disponibilità e cortesia che la biografia di un atleta italiano partecipante ai Giochi Olimpici può arricchirsi di un dettaglio, piccolo fin che volete, ma per noi che in questi dettagli lavoriamo, importante. Magari fosse sempre così come a Pianoro. Città dove nacque la nostra indimenticabile Bice «Bicetta» Marabini, che spese una gran parte della sua vita in favore dell'atletica, prima di tutto la sua amata Atletica Bergamo 1959,  e fu per tanti anni giudice e dirigente dell'atletica lombarda, poi socia fin dalla fondazione dell' A.S.A.I.; Bice Marabini, prematuramente scomparsa, era la zia di Paolo, socio nostro e da anni giornalista alla «Gazzetta dello Sport».

Ultimo aggiornamento Sabato 12 Settembre 2020 21:03
 
Trekkenfild numero 85: per chi vuol leggere l'atletica...nuova che avanza PDF Stampa E-mail
Giovedì 10 Settembre 2020 08:32

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Messaggio per gli statistici dell'Archivio Storico dell'Atletica Italiana, Enzo Rivis ed Enzo Sabbadin: dovete aggiornare rapidamente le vostre liste e aggiungere nuove discipline, che sicuramente grazie ai geni che dicono di governare lo sport mondiale (leggi C.I.O.) entreranno nel programma dei prossimi Giochi Olimpici (quando? siamo curiosi di vedere). Intanto han già approvato l'ammissione degli e-games, giochi elettronici, rob de mat. Ci si è battuti per decenni contro la sedentarietà degli sportivi da tribuna, contro la televisione che inchiodava i bambini per interi pomeriggi sui sofà, e oggi mettiamo i giochi elettronici nelle discipline olimpiche. Rob de mat, bis in idem.

Tutto questo per dire che...per dire che sull'ultimo numero di «Trekkenfild» (siamo al numero cardinale 85) ci siamo imbattuti in un articolo che stila la classifica di una di quelle robe che chiamano «social» che tutto sono meno che socializzanti. Ma fa figo parlare di questo e così anche l'editore di «Trekk», Brambilboni, ha ammainato bandiera alla moda. Tanto che lo stesso Brambilla, durante la sua chiacchierata microfonica durante il meeting «Palio della Quercia», a Rovereto, ha fatto doverosa citazione alla statistica social. Captatio benevolentiae per i giovani? Per noi non c'è dubbio. Ma così va 'sto disastrato mondo, che a moltissimi piace e ci si trovano a loro agio e ad alcuni di noi non piace, chiaramente. Titolò un suo libro Gianni Mura «Non gioco più». Ecco, appunto.

Ma, per fortuna, 'sto eleborato pseudostatistico non è il pezzo forte di questa edizione della rivista telematica. Si parla dei Campionati nazionali a Padova, di atleti, del nuovo che avanza, aggiungiamo: era ora. Una voce nel deserto dell'informazione atletica, anzi «la voce», e allora teniamocela stretta.

Ultimo aggiornamento Giovedì 10 Settembre 2020 09:08
 
Rovereto: sulla sabbia della pedana del lungo resiste l'impronta di Nenad Stekic PDF Stampa E-mail
Lunedì 07 Settembre 2020 16:47

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 Nenad Stekic, in una foto di quella gara a Rovereto, mentre si prepara alla rincorsa. Riproduzione della pagina originale dei risultati della gara di salto in lungo: si noti l'accuratezza del dattilografo che ha storpiato il cognome in «Stekuc». Idem per «Rosseau»

 

Che anno, quell'anno! 1978, ve lo ricordate? Milano Campionati d'Europa indoor, Yashchenko superò 2.35 e Sara Simeoni vinse il titolo nella stessa disciplina; Pietro Mennea alle prese con i difficili equilibrii tecnici e tattici di due giri di pista indoor (400 metri) ce la mise davvero tutta quella volta; medaglie per Baffino Buttari e per Rita Bottiglieri; vicinissimo al podio, due miseri centimetri ma il metro è rigido, Carlo Arrighi che se ne è andato prima di tanti di noi. Questo quando fuori, a Milan,el faseva fred. Poi l'estate. A Brescia, nel campicello detto Campo Scuole dell'epoca eroica dello sport scolastico, campicello che navigava su un mare di PCB (policlorobifenili, micidiali), il 4 agosto, Sara Simeoni divenne la donna più alta del mondo (2.01). Giusto il tempo di raggiungere Praga, la bella misteriosa Città d'oro, culla di musici che fan volare la fantasia alla ricerca di un Nuovo Mondo, di processi angoscianti e di tante belle leggende, per seguire, intirizziti dal freddo, un duplice Mennea , ancora Sara con i suoi famosi calzettoni disneiani - poi regalati ci ha detto recentemente Erminio Azzaro -, un Venanzio Ortis anche lui d' oro e d' argento.

Che anno, quell'anno! Primo Nebiolo trovò le chiavi che cercava da tempo e aprì le porte della Città Proibita: i nostri ragazzi e ragazze andarono alla scoperta della Cina che era uscita da un paio d'anni dalla follia collettiva della Rivoluzione Culturale voluta da Mao Zedong, morto, con il mostro sociopolitico che aveva ideato, nel 1976. E di passaggio verso l'Impero di Kublaikan, il «Meeting delle Otto Nazioni» a Tokyo. Quasi nello stesso tempo gli organizzzatori della U.S. Quercia Rovereto allestirono il loro meeting, 14esima edizione del «Palio», primo Trofeo Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto. Pista in Rubkor, pedane in Sportflex, solo gare per maschietti.

Le due riviste (sì due, 1978 due riviste mensili di atletica, 2020 zero, anche per noi la nostra piccola disastrosa Rivoluzione Culturale!) dell'epoca dedicarono picca spazio al meeting. Una delle due non fece meglio di 19 righe. La oculata attenzione di Roberto L. Quercetani individuò il vero, grande risultato di quella edizione. Scrisse il Maestro nella sua rubrica «Atletica-Mondo» sulla rivista federale:

"A Nenad Stekic, primatista europeo del lungo (...) è bruciata non poco la sconfitta patita agli Europei di fronte all'eterno rivale Jacques Rousseau (8.12 contro 8.18)...". Appunto: lo jugoslavo aveva perso contro il francese d'Oltremare (nato a Pointe-à-Pitre, Guadalupa) e non gli era andata giù.

"Dopo gli Europei il 27enne Stekic si è tuffato nella mischia dei meeting ad invito..." Fra i 5 e il 23 settembre Stekic disputò otto meeting in Germania e in Italia. Monetizzare aiuta a dimenticare le delusioni. Inoltre, in tre occasioni, aveva anche menato sonoramente il transalpino.

"Stekic, venuto in Italia in viaggio di nozze, ha avuto la sua grande giornata a Rovereto, dove ha ritrovato il miglior Rousseau. Ne è venuto fuori il più gran duello fra lunghisti mai visto su suolo italiano...". Poi Quercetani riporta le due serie di salti, che i nostri lettori possono leggere sulla pagina dei risultati originali che pubblichiamo.

"La «media» di Stekic a Rovereto - 8.17! - è la più alta sin qui ottenuta da un europeo su sei salti validi. Il precedente record apparteneva dal 1974 a Valeri Podluzhni con 8.09...".

Nenad aveva una «battuta» che pareva uno sparo, una frustata, secca seppur leggera. Un grande lunghista. A ben pensarci, a quei tempi era secondo al mondo, aveva davanti un tale che di cognome faceva Beamon, e di nome Bob. Son passati 42 anni, ma l'8.32 del giovanotto serbo di Belgrado è lì, inamovibile, nell'albo d'oro del «Palio».

Terzo, a rispettosa distanza, un giovanotto bresciano di gran talento mai totalmente espresso, peccato: Maurizio Maffi, di Palazzolo sull'Oglio, allenato da Bruno Mahoni, tipo un po' bizzarro ma che c'azzeccava. Visto che ci siamo: furono parecchi i bresciani indigeni o importati presenti sotto la quercia. Ricordiamo Mario Zoppi, cremonese allenato da Giuseppe Italia, ci cui si può dire «la corsa campestre è il mio mestiere», nei 1500 vinti da Chicco Leporati, poi allenatore di Stefano Mei; stessa gara Alberto Cova, ottavo. Altri nomi: Roberto Filippini, bel decatleta non realizzato; Alfredo Bonetti, nei 5000, il quale ha collezionato gerle piene di primati Master; in quella gara su un altro pianeta (roba da 13:30.0, gli altri a una cinquantina di secondi) Ilie Floroiu, che sarebbe asceso alla presidenza della Federazione rumena con la volontà di far ordine e pulizia, missione fallita, e se ne è andò insalutato, meglio insultato, ospite, ed era una persona per bene. Alto: Maurizio Tanghetti, poi imprenditore; in quella gara tre a 2.21: l'olandese Wielart, Bruno Bruni e il teutonico Karl Trainhardt. Nell'altro esercizio di scalare il cielo a forza di braccia, vinse un italiano emigrato, Tracanelli, gran talento, da Udine alla terra di Asterix. Quinto un nome che dice qualcosa ai moderni: Gianni Stecchi. Era il padre.

E infine lui, il più atteso, il suo nome era: Pietro Mennea, quattro zampate, 20.48. In quella stagione corse quindici volte in meno di 20.70. Ordinaria amministrazione.

Era il 16 settembre 1978, un lunedì, Santa Sofia Martire.

Ultimo aggiornamento Martedì 08 Settembre 2020 06:33
 
Ripassi di memoria: Universiadi da Torino 1959 a Torino 1970 (parte 2) PDF Stampa E-mail
Sabato 05 Settembre 2020 06:47

Concludiamo, con questa seconda parte, la narrazione dei vari capitoli temporali di una manifestazione internazionale nata come Giochi Mondiali Universitari e poi divenuta Universiadi, diremmo per assonanza con Olimpiadi. Il narratore è Augusto Frasca che ci accompagna dalla edizione di Torino 1959 a quella del 1970, sempre nella città sabauda. Non perdete l'occasione di una buona lettura.

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Era attesa a Roma, ma l'imminenza dei Giochi Olimpici ne suggerì lo spostamento. A raccogliere il messaggio dell'Universiade 1959, da undici anni al vertice goliardico cittadino, sostenuto sul versante istituzionale da Mario Saini, eporediese di nascita, braccio destro di Bruno Zauli nella gestione del Comitato olimpico nazionale e protagonista in anteguerra dell'organizzazione, nell'Augusta Taurinorum, dei Campionati mondiali universitari e della prima edizione dei Campionati europei di atletica, Primo Nebiolo. Fu un successo, 43 nazioni, 1.407 atleti sul campo, quattro giorni, dal 3 al 6 settembre, il calendario dell'atletica. Un primato rispetto alla Parigi di due anni prima. Fu un formidabile miracolo diplomatico, costituito dalla presenza di atleti cinesi, rappresentanti di un'entità politica e sportiva fuori dal consesso del Comitato olimpico internazionale e giunta a Torino – nell'imbarazzato sconcerto del Foro Italico, sotto lo sguardo attento della municipalità retta dall'avvocato civilista Amedeo Peyron, democristiano, e nell'induzione in paranoia di Angelo Cremascoli, factotum in segreteria generale, impegnato nell'inedita ricerca di un interprete – provvista di un visto culturale recuperato tramite l'associazione internazionale studentesca di sede a Praga. Un evento senza bandiere nazionali, unico vessillo la grande U con cinque stelle, unico inno il Gaudeamus igitur degli antichi clerici vagantes medioevali, unico simbolo grafico la magnifica riproduzione, ideata da Antonio Donat-Cattin, delle gambe in primo piano di Douglas Alistair Gordon Pirie, britannico conquistatore fra il 1953 e il 1956 di vari primati mondiali di mezzofondo e tuttavia mortificato, nei Giochi di Melbourne, dalle gambe di Vladimir Petrovich Kuts, l'atticciato marinaio di Aleksino che avremmo elevato a nostro idolo temporaneo, al termine della sua cavalcata mondiale sui 5.000 metri, in un radioso pomeriggio romano dell'ottobre del 1957, quando sembrò che sotto la pesantezza delle sue cadenze scorressero millenni di storia dell'uomo.

Ecco, per chi scrive, le curiosità agonistiche di Torino '59. Gli esiti di quattro atleti orientali, miglior risultato il 14.6 sui 110 di Kao Chi-chiao, quarto alle spalle di Nereo Svara e di Giorgio Mazza, i 4 metri nell'asta di Chang Chang-fa, il 14.44 di Ku Ke-yen nel triplo, il 22.6 di Chen Chia-chuan sui 200. Le vittorie in abbinata, da lontano, di Giuseppina Leone e della sua corsa satinata – di lì a poco unica medaglia olimpica italiana nella storia dei 100 metri – e di Livio Berruti, 11.7 e 23.8, 10.5 e 20.9. Di Salvatore Morale, 400 ostacoli in 52.1, di Attilio Bravi, salito nel capoluogo piemontese dalla cuneense Bra, 7.46 nel lungo, di Iolanda Balas, sgraziato fenicottero di Timisoara, fresca titolata continentale a Stoccolma e già ultra primatista mondiale. E di John Holt, prossimo ad occupare nella ristretta sede londinese di Upper Richmond Road, 162, il massimo scranno amministrativo della Federazione internazionale, secondo in 1:50.5 in un combattuto finale degli 800, stesso tempo del tedesco Dieter Heydecke, e titolare nel terzo posto del quartetto britannico nella 4x400. Anni dopo, non senza punte perdonabili di compiacimento, del personaggio avrei conquistato definitivamente confidenza e rispetto facendogli omaggio di una cassetta con madrigali di Carlo Gesualdo principe di Venosa – autore seicentesco, celebre per la bellezza delle sue composizioni ma anche per aver fulminato nella profanazione dell'alcova coniugale una moglie infedele e il suo drudo – di cui Holt, pure professionalmente versato in campo musicale, ignorava l'esistenza, e per di più meravigliosamente interpretati da una corale di Oxford!

Da Sofia 1961 in poi, salito il 5 settembre al vertice della Fisu, le Universiadi furono un monologo, esclusivo terreno di conquista di Nebiolo, ivi comprese, nelle loro imbarazzanti immutabilità, le ritualità degli incontri istituzionali e delle insegne onorifiche, chieste e ricevute, nelle sedi di volta in volta scelte in base alle garanzie assegnate ad una manifestazione progressivamente avviata, per composizione cosmopolita e pansportiva, ad essere inferiore solo ai Giochi olimpici. A Sofia, l'atletica dal 31 agosto al 3 settembre, prima novità, i cubani, a segno con Enrique Figuerola, 10.4 nei 100, gara in cui è impegnato fino a semifinali comprese un insolito Igor Ter-Ovanesyan, 10.5, poi volato a 7.90 nel lungo e subito divenuto 'principe' secondo scontato riferimento al Borodin delle Danze polovesiane. Si afferma nuovamente nel suo prorompente agonismo Tito Morale in 50.0, si affermano colossi dei lanci quali Gyula Zsivotski e Gergely Kulcsar rispettivamente nel martello e nel giavellotto, mentre si affacciano nel contesto goliardico due sorelle di Kharkov, Tamara ed Irina Press, inquietante consesso familiare, due pezzi di donna onuste di vittorie, di primati e di sospetti, due esistenze agonistiche parallele destinate a chiudersi alla vigilia dei campionati europei del 1966 all'avvio dei controlli antidoping. Ma la punta nobile dell'edizione bulgara è rappresentata dall'atleta che natura, e un tecnico dalle non comuni capacità, Vladimir Michajlovič D'jačkov – architetto, maestro dello sport sovietico, coniuge dell'estroversa e corposa discobola pluriprimatista mondiale Nina Dumbadze, la stessa di cui si scrisse (Gianni Brera), infoiata del maciste di Costermano, di un assalto erotico ai limiti dell'aggressione portato vittoriosamente a termine, in una pausa di Helsinki '52, fuori dall'occhio invidioso di Beppe Tosi, nei confronti di Adolfo Consolini – avrebbero elevato al rango di più grande altista di tutti i tempi, secondo collaudato copyright di Giacomo Crosa, Valeriy Brumel, salito alle 18.40 del 31 agosto, al Vasil Levski Stadium, a metri 2.25, terzo primato mondiale della stagione, misura poi segnata da un memorabile ritocco il 21 luglio 1963, il 2.28 realizzato sulla pedana di Mosca in occasione dell'incontro Urss-Usa.

Dalla plumbea città bulgara all'esotismo brasiliano, nel 1963, di Porto Alegre, settembre, dal 3 all'8. Tra le affermazioni di Brumel, 2.15 su Mauro Bogliatto, 2.09, nuovo primato italiano, di Ter-Ovanesyan, fresco dell'8.31 mondiale di Yerevan, e di Janis Lusis nel giavellotto, spazio per gli azzurri: copertina a Roberto Frinolli, 50.5, fresco del titolo internazionale militare, e a Gaetano Dalla Pria, 51.63, due terzi posti per Berruti, 10.5 e 21.5, di Morale, 51.9, il sesto di Beppe Gentile, fermo a 15.45. Tra le curiosità in campo, citazione per Istvan Gyulai, quattrocentista da 48.3 quinto in finale davanti all'azzurro Mario Fraschini, ultimo frazionista di una 4x100 ungherese vincitrice a sorpresa sui cubani condotti da Figuerola e più avanti, dopo un ventennio di militanza giornalistica, approdato al munifico ruolo di segretario generale della Iaaf nella stellare sede monegasca al 17 di rue Princesse Florestine.

Budapest, 24-29 agosto 1965, terza affermazione consecutiva per Ter-Ovanesyan, 8.19 sul gallese Lynn Davies, reduce dal trionfo olimpico di Tokyo e prossimo a completare l'invidiabile curriculum con un titolo europeo e l'affermazione ai giochi del Commonwealth, e per Gyula Zsivotsky. Raddoppio di Frinolli, esordio vincente per Eddy Ottoz, 13.6, primato italiano, dinanzi a Giovanni Cornacchia e a Willie Davenport, en plein di Sergio Bello, 46.8 sui 400 e forte frazione nell'Italia vincente nella 4x400, terza presenza, modesta, di Berruti, eliminato in batteria nei 100 e sesto in 21.3 sui 200, Gentile, 16.31, a quattro centimetri dalla medaglia e primato nazionale. Nel decathlon, Bill Toomey, statunitense: conoscerà, e poi sposerà, a Città del Messico, sede della sua affermazione olimpica, separandosene poco dopo, Mary Bignal, ricordata dagli esteti come le più belle gambe di Roma '60, unita in prime nozze con Sidney Rand, olimpionico di canottaggio, vincitrice nel lungo a Tokyo 1964, 6.76, primato mondiale e prima britannica olimpionica in atletica. Mentre Toomey, tra il '66 e il '69, salirà al vertice della specialità con due primati mondiali, l'irrequieta britannica passerà a nuove nozze trasferendosi ad Atascadero, in California, il cui zoo è intitolato a Charles Paddock, il grande velocista degli anni '20 deceduto in un incidente aereo, da ufficiale dei Marines, nel secondo conflitto mondiale. Unica nazione con quattro affermazioni, nella classifica finale l'Italia assaggerà la soddisfazione di precedere Unione Sovietica, Stati Uniti e Germania. A Budapest farà discesa in campo la principessa polacca Irena Kirszenstein non ancora Szewinska, indisturbata su 100 e 200: una levità di corsa e di tratto destinata a lasciare meravigliose memorie lungo un infinito tracciato di affermazioni e di primati.

Nel 1967 l'Universiade si spostò a Tokyo, dal 30 agosto al 4 settembre. Dato più vistoso, con un anno di anticipo rispetto all'esplosione di Città del Messico, la presenza di Tommie Smith, secondo sui 100 battuto dall'ivoriano Kone e primo sui 200 in 20.7, e l'incrocio curioso con un Livio Berruti, quinto in 21.5. Due terzi posti di Ito Giani in velocità, ancora un Ottoz vincente, doppio impegno per Gianni Del Buono, terzo in 3:44.0 sui 1.500 e ottavo in 1:49.2 sugli 800, e Gentile, terzo nel triplo, 15.84, sesto nel lungo, 7.31, terzo Sergio Bello sui 400, e finale di fuoco italiano in 39.8 con la 4x100, Vittorio Roscio, Ennio Preatoni, Ito Giani e un regale Berruti in ultima frazione, la stessa di Smith, con gli Usa quinti classificati indietro di nove decimi rispetto agli italiani.

Poi, nel 1970, dal 2 al 6 settembre, il passaggio epocale della manifestazione. Per Nebiolo, nella sua Torino, l'apoteosi, e con essa l'inclinazione, ipertrofica nella sua progressione, d'essere Primo di nome e di fatto al punto d'identificarsi in un proprio personale Monte Rushmore. Tutti coinvolti, nell'occasione: la benedizione di Gianni Agnelli, l'abbraccio del presidente Saragat, l'adesione controllata della irriverente e rischiosa compagine universitaria cittadina, la presenza del capo del Governo Emilio Colombo, platealmente intronizzato in tribuna con feluca goliardica. L'apertura fu celebrata in uno stadio Comunale reso colmo anche per l'accorrere di calciofili interessati all'incontro Cagliari-Sporting Lisbona, arbitrato da Concetto Lo Bello e messo in calendario al termine della cerimonia con l'aiuto di un abilissimo conciliatore di rapporti a nome Andrea Arrica. La regia fu firmata dal concittadino Bruno Beneck a chiusura di una staffetta che coinvolse i migliori atleti italiani del tempo con una fiaccola riproducente la miccia con cui, durante l'assedio di Torino del 1706, Pietro Micca aveva fatto saltare in aria, a difesa della libertà, la storica Cittadella. Quell'Universiade mosse mezza città, e ne parteciparono amministratori civici, notabili, maestranze e semplici osservatori, con una stampa che fu sollecita ad accompagnare una festa cittadina ricca di internazionalità, e furono i locali Ormezzano, Romeo, Perucca, Perricone, Toniolo, Pacifico, Colombo, i giovanissimi Barberis e Pistamiglio, Barletti e Boscione a dirne e scriverne assieme ai Lòriga, Berra, Signori, Pirazzini, Monti, Massara, Melidoni, Pirona, Mantovani, Vespignani, giunti dal resto d'Italia. Anche tecnicamente quell'Universiade fu un trionfo, nobilitato dai primati mondiali di Heidemarie Rosendahl, 6.84 nel lungo, e di Wolfgang Nordwig, 5.46 nell'asta, con un contorno eccezionale, Renate Meissner-Stecher, Viktor Saneyev, Larry James, Valentin Gavrilov, David Hemery, Miklos Nemeth, Pat Matzdorf, Maria Sykora, Teresa Sukniewicz, Nadezhda Chizhova, vale a dire il meglio a portata di mano dell'epoca, la vittoria di Franco Arese sui 1.500, i piazzamenti di riguardo di Azzaro, Del Buono, Cindolo, Liani, Simeon. Con Torino, si chiuse un'epoca. Mosca, tre anni dopo, geniale anticipazione nebiolana dei Giochi dell'80, fu l'apertura di una nuova frontiera. Chiudiamo qui il ripasso… 

Ultimo aggiornamento Sabato 05 Settembre 2020 08:40
 
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