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L'oro della medaglia olimpica non sbiadisce mai: Giuseppe Dordoni PDF Print E-mail
Sunday, 21 July 2019 18:07

Era il 21 luglio 1952. Quel giorno, Giuseppe Dordoni, per tutti «Pino», piacentino del Quartiere Sant'Anna, entrò nell'albo d'oro olimpico con la vittoria sui 50 chilometri di marcia. Era la settima medaglia d'oro che un atleta italiano, uomo o donna, portava al nostro Paese. Dordoni aveva già vinto, sulla stessa distanza, il titolo di campione d'Europa, era agosto 1950, sulle strade di Bruxelles. La distanza era stata introdotta nel programma olimpico nel 1932, a Los Angeles, e già allora l'Italia salì sul podio con Ugo Frigerio, terzo, dopo il britannico Thomas William Green e il lettore Jānis Daliņš. Dordoni ottenne la vittoria stabilendo anche la miglior prestazione mondiale sulla distanza (allora non esistevano improbabili primati del mondo per prove fatte su strada...), marciando in 4 ore 28'07"8, ovviamente anche nuova miglior prestazione olimpica. Nel finale Pino dovette tenere a bada il forsennato ritorno del cecoslovacco Josef Doležal, che ai 40 km era indietro di quattro minuti circa. Al terzo posto l'ungherese Antal Róka. Non aveva resistito al passo di Dordoni lo svedese John Ljunggren, che aveva vinto quattro anni prima a Londra. Straordinaria la carriera di questo svedese: ancora bronzo a Melbourne 1956 e addirittura argento a Roma 1960, dodici anni dopo l'oro di Londra.

Chi vuole, si goda il minuto e 41 secondi del filmato dell'Istituto Luce che potete trovare a questo indirizzo.

Last Updated on Monday, 22 July 2019 09:53
 
Marcello Fiasconaro, record del mondo uno solo, ma allegre risate tante, sempre PDF Print E-mail
Wednesday, 17 July 2019 06:00

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di Giorgio Reineri
 
Favolosi quegli anni Settanta. Essi ci sono tornati alla mente per via dell’incombente genetliaco di Marcello Fiasconaro che, proprio nel luglio di questo 2019, celebra il suo settantesimo anno di vita. Lo celebra in Sud Africa, a Città del Capo, dove nacque nell’ormai distante 1949, figlio di Gregorio e Mabel Marie Brabant, e dove ha fatto ritorno, da Johannesburg, per trascorrervi il tempo del riposo cullato dalle onde di due oceani. In verità, gli anni Settanta, preannunciati dalla bombe di piazza Fontana (Milano,1969), furono per la vita socio-politica italiana pieni di trambusto: scoppi si susseguirono per la penisola, così come ammazzamenti e rapimenti di politici, sindacalisti, magistrati, dirigenti d’imprese, sino a quell’autentico colpo di stato che fu la strage di via Fani (Roma, 1978), seguita dal crudele assassinio di Aldo Moro. Ma fra tante angosce e sofferenze noi della parrocchia atletica trovavamo rifugio in questo sport che, malgrado i guai del paese, viveva una stagione di rifioritura e speranze. I protagonisti? Franco Arese, Sara Simeoni, Pietro Mennea, Paola Pigni (seguita da una giovanissima Gabriella Dorio) e, improvvisamente sbucato dal Sud Africa della segregazione razziale, Marcello Fiasconaro.
Imprese e vicissitudini del corridore Fiasconaro sono note, specialmente a chi per diletto (o mestiere) scrive di storia atletica. Andarle a ripercorrere sarebbe, dunque, un esercizio superfluo: chi ha dimenticato, fra i quattro lettori di queste righe, la notte del 27 giugno 1973 all’Arena di Milano? Fu record del mondo degli 800 (1’43’’7) e, 46 anni piu’ tardi, continua a rimanere record italiano, avvicinato (da Donato Sabia e Andrea Longo) ma mai battuto. Certo, quello fu il punto alto della carriera di Marcello, più alto della medaglia d’argento agli Europei di Helsinki ‘71 sui 400, con un primato nazionale (45’’5) che, pure esso, durò una gran manciata di anni. Ma l’importanza di Fiasconaro per lo sport nazionale non si esaurisce nel racconto dei suoi trionfi e delle sconfitte (come quella patita, sugli 800, da Luciano Susanj agli Europei di Roma 1974), bensi’ sta nella sua umanità, nella capacità di accettare gioie e sofferenze mai dimenticando che, entrambe, eran passaggi, inevitabili, del gran gioco dello sport.
Marcello era arrivato a noi per vie un po’ misteriose, attraverso un tam-tam di notizie e risultati raccolti consultando i resoconti di gare sudafricane. A quel tempo, come s’è accennato, il Sud Africa applicava una feroce politica razzista, escludendo tutta la popolazione di colore (e meticcia) dalla vita sociale, politica, economica, sportiva della tribù bianca, principalmente britannica e d’antica origine olandese, ed in conseguenza di questo “apartheid” era stato escluso da tutte (o quasi) le federazioni sportive internazionali e dal C.I.O. (Comitato Internazionale Olimpico). Ma in Sud Africa gareggiare si continuava, e così il nome di Fiasconaro aveva preso a circolare, tra gli appassionati, come quello di un ragazzo di talento. Se la memoria non ci inganna, fu Carmelo Rado, discobolo di valore ed ex atleta dell’Unione Giovane Biella, emigrato laggiù con un buon posto di lavoro, a segnalare in Italia la comparsa di tanto prodigio. Rapidamente, come era all’epoca consuetudine, la Fidal si mosse (Nebiolo presidente e Barra segretario non eran gente che s’addormentasse sulle pratiche) e così Fiasconaro approdò un bel dì a Genova, con tanto d’italico passaporto per via del padre, italianissimo maestro di musica fatto prigioniero in Africa dagli inglesi, portato nei campi di concentramento sudafricani e lì rimasto, anche a guerra mondiale terminata.
Il primo incontro con Marcello avvenne proprio in occasione del campionato italiano indoor, che allora si teneva al Palafiera di Genova. Le tribune erano gremite, come se stessero per incontrarsi Sampdoria e Genoa. Ma nel gran clamore del pubblico, la risata di Fiasconaro vincitore del suo primo titolo nazionale ebbe il sopravvento. Era una risata schietta, che si dipanava e cresceva d’intensità a mano che altre s’accodavano; una risata che coinvolgeva e distribuiva allegria, che cancellava ogni ombra o risentimento; una risata che comunicava voglia di vivere, proprio come il direttore d’orchestra comunica ai suoi musicanti la voglia di musica.
Quante volte abbiamo udita quella risata, nei troppo brevi anni di permanenza di Marcello in Italia. L’udimmo a Helsinki, dove chiunque altro non fosse stato March avrebbe imprecato, non a David Jenkins, ma a chi gli aveva detto di badare soltanto al polacco Badenski: cosicchè, quando sbucò in rettilineo avendo Badenski alle spalle, s’avvide dell’inglese avanti di metri e produsse lo sforzo che lo portò a pareggiarlo, ma non superarlo, sulla linea del traguardo.
Oh, sì, Marcello aveva questo talento: di affogare nel riso che gli gorgogliava su per la gola i momenti di stanchezza. O di dolore. Di dolore fisico, davvero, perchè Fiasconaro era stato costruito con l’acciaio, a parte piedi e tendini che eran, sì elastici, ma di materiale facilmente logorabile. E gli allenamenti, sotto la guida di un britannico prima e di Tito Morale poi – allenamenti violenti, sennò non si sarebbe potuto correre il record del mondo – avevano rapidamente sgretolato le ruote di quella straordinaria macchina da corsa. Si cercarono rimedi, e si consultarono i meglio ortopedici del tempo: il dottor Ruben Dario Oliva, ad esempio, cercò invano di alleviare l’infiammazione a quell’estremità sofferenti. E Marcello, tra una smorfia e una risata, accettava di sottoporsi a prove di efficienza: allunghi a ripetizioni, non importa dove, davanti a Primo Nebiolo e alla sua coorte, che lo sospingevano a tentare e ritentare, nel caso il miracolo fosse avvenuto.
Grande Marcello, che seppe ridere anche quel pomeriggio di prima estate, ad Oslo, quando uno starter troppo occhiuto lo esluse dalla gara degli 800 di Coppa Europa, e ne venne fuori un parapiglia che finì sulla prima pagine del londinese Times, con Bruno Cacchi, allora Commissario Tecnico, impugnante la sua minacciosa pipa nei confronti del giudice-arbitro. Era accaduto che March avesse mosso per due volte – doppia partenza falsa – il piede destro, barcollando e scavallando la linea di partenza, prima dello sparo. Non era probabilmente mai successo, e non sarebbe mai più accaduto, che un ottocentista - primatista del mondo! - venisse squalificato per tale sciocchezza. Ma capitò, e proprio al più innocente dei campioni: Marcello Fiasconaro. Il quale la prese come doveva prenderla uno che era fenomeno nella corsa ma, anche, nel saper leggere, in ogni vicenda della vita, l’aspetto umoristico: con una gran risata, e una stretta di mano ai suoi avversari, l’inglese Carter e il sovietio Arzhanov (Adriaan Paulen, presidente all’apoca della Federazione Europea e, tre anni dopo, della Iaaf, propose, a seguito dell’episodio, che agli ottecentisti che lo richiedessero fosse data la possibilità di partire dai blocchi, e non in piedi).
Ecco, sono (anche) questi minuscoli ricordi d’anta’n che impreziosiscono quei favolosi anni Settanta. Dove le tensioni della quotidianità si stemperavano  – almeno in quella nicchia felice che era l’atletica del tempo – in gran risate: le stesse che ci pare di sentire risuonare, laggiù a Città del Capo, dove Marcello Fiasconaro s’appresta a spegnere, con solenne e profondo sbuffo, le sue settante candeline.
 
Nelle quattro fotografie: in alto a sinistra, copertina della rivista «Atletica» del 1971 autografata da Marcello; a destra, l'arrivo della gara allo Stadio dei Pini di Viareggio dove Fiasconaro corse in 45"5, nuovo primato italiano; in basso a sinistra, il famoso arrivo della finale dei 400 ai Campionati d'Europa a Helsinki; a destra, il prof. Carlo Vittori controlla March dopo un allenamento.
Last Updated on Friday, 19 July 2019 15:26
 
Happy Birthday, March, straordinario protagonista di una stagione troppo breve PDF Print E-mail
Thursday, 18 July 2019 13:44

Domani, 19 luglio 2019, Marcello Fiasconaro festeggerà il suoi sette decenni di vita. Marcello è stato un grande atleta, un grande «personaggio», atterrato in Italia da un altro pianeta sportivo, con un'altra mentalità, con un modo differente di interpretare la sua stagione umana come atleta, in allegria. Oggi, noi dell'Archivio Storico dell'Atletica Italiana "Bruno Bonomelli" gli facciamo gli auguri. Domani, in questo stesso spazio, pubblicheremo un articolo, in esclusiva direbbero in un giornale, di un nostro socio. Socio, e soprattutto amico, che ha conosciuto e conosce l'arte del bello scrivere, sia che scrivesse con calamo sui banchi della scuola elementare, sia che usasse la Lettera 22, sia oggi che si è dovuto adattare - già da molti anni - alla dittatura del pc. Se avrete tempo, scoprirete domani chi è, attraverso un ritratto di Marcello, uomo e atleta nel giorno del suo settantesimo genetliaco.

Auguri, March!

Last Updated on Sunday, 21 July 2019 19:35
 
Trekkenfild numero 72: da Milano a Brescia, da Losanna a Montecarlo, a Londra PDF Print E-mail
Wednesday, 17 July 2019 10:05

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Giochi Olimpici (invernali) a Milano, piste fatte rifatte mai fatte, velocisti di ieri e dell'altro ieri (di questo viviamo) di domani (forse), attualità agonistiche dal parterre mondiale. Abbiamo citato quasi tutto da questo numero 72 inviatoci dalla copiia Brambilla - Perboni, che, ve lo ricordiamo, sono sempre alla ricerca di un minimo di sostentamento per continuare a vivere a sopravvivere a sfrugugliare. Dimenticavamo: c'è perfino una lettera del nostro (nel senso di A.S.A.I.) segretario, Alberto Zanetti Lorenzetti sulla situazione impianti atletici a Brescia. C'è proprio di tutto! Scherzi a parte, leggete se vi va.

Last Updated on Wednesday, 17 July 2019 13:28
 
18 agosto 1945: Gianni Brera scrive il suo primo articolo per la «Gazzetta» PDF Print E-mail
Monday, 15 July 2019 09:34

C'è solo da aggiungere il titolo di quello scritto iniziale. E, per chi ha voglia tempo e interesse, ripensare attentamente a queste parole, tanto attuali. Per quei pochissimi un po' flebili di memoria ricordiamo che la citazione del Foscolo si riferisce alla orazione che egli tenne alla Alma Ticinensis Universitas alla inaugurazione della cattedra di eloquenza, nel 1808, cattedra soppressa poco tempo dopo dal signor Napoleone. Dittatori, grandi o piccoli, hanno sempre avuto in ùggia la cultura e il libero pensiero.

Atletica e dinamismo storico

"In epoca per il nostro paese oscura come questa, di guerre delusioni massacri e speranze magnifiche, da una cattedra universitaria il poeta Ugo Foscolo esortava i giovani «alle istorie». Era un grido, insieme, di dolore e di fede: il presentimento infallibile di un poeta che, sensibile al gigantesco evolversi della storia, intuiva quanto gli italiani fossero fuori del mondo, quanto il processo storico universale avesse in definitiva e triste maniera superato l'umanesimo, stantio ormai ed esausto, dei padri. E coltivare «le istorie», allora, sarebbe stato un mettersi alla pari: comprendere il proprio tempo e vederne gli svilippu futuri. Da allora, molte cose mutarono: e sta Ugo Foscolo alle soglie di quel Risorgimento dell'Italia non ancora del tutto compiuto: quel periodo di sociale fermento che, innestandosi sulle direttrici del pensiero romantico, alquanto redense il popolo dalla plumbea staticità della sua cultura, e additò nuove vie di progresso, di libertà, di rinascita. Del tutto non s'è compiuto il Risorgimento d'Italia. Isole di vieta sufficienza permangono, stagnano gore di vecchiume nel nuovo fermento del popolo. Sono luoghi comuni rinsaldati tra noi da un errato concetto della storia, che falsa le proporzioni, confonde i limiti, esalta meschine ambizioni di megalomani...E uno dei luoghi comuni più abusati è, nella nostra mentalità, l'ostentato disprezzo di taluni per tutto ciò che di fisico, di serenamente dinamico sia nell'attività degli uomini. L'ideale umanistico dell'ho sapiens accumulato tra pile enormi di libri sapientissimi, e avulso dalla vita pratica come può esserlo un bonzo dalla lotta greco-romana; la visione arcadica del saggio aggrappato alle contorte circonvoluzioni del suo cervello permane qui e là in Italia, a tutto danno di quel dinamico rifiorire tanto auspicato oggi da chi ha tutta coscienza del momento storico presente e del nostro avvenire di popolo.

"Enormi cervelli seduti: così i romani infrolliti e raffinati al tempo delle calate barbare. Così, al tempo di Roberto Clive, gli indiani soltanto attratti da speculazioni interiori.

"Galoppavano allora i Germani tra le colonne dei fori; allora un pugno di uomini audaci conquistava un impero alla corona inglese.

"Italiani, vi esorto alle atletiche! griderebbe oggi il poeta. La storia abbiamo compresa, sia pure a nostro danno: dobbiamo invece togliere dalla mente gli ultimi ragnatelosi vecchiumi d'una psicologia superata. Dobbiamo muoverci. I muscoli afflosciati ritornino a temprarsi, gonfi di sangue e di vita. Gli stadi si riaprono, italiani, le piste gli attrezzi gli impianti si riattano alla ripresa. Diamoci dentro, a rinnovare il sangue. Enormi cervelli fuori del tempo non giovano. Non appaghiamoci di ridicole presupponenze. L'albagia latina di Alexis Carrel ci ha manadato in sollucchero con facili e arbitrarie descrizioni dell'homo anglosassone, forte di muscoli, alto, membruto, dal cranio piccolo e dal cervello di gallina. Niente di più grottesco: la stessa posizione psicologica del romano raffinato che ride dei Germani non ancora edotti dalle sofisticherie alessandrine e dei meteci greci; del bramino che disprezza il britannico bellamente al disopra di ogni ridicola e statica elucubrazione mentale. Romani e bramini e altri che al travolgente cammino della storia non seppero adeguarsi, alla storia soggiacquero e finirono. L'olimpionico americano dai muscoli guizzanti, dallo spirito lanciato nell'ardore delle conquiste sportive, è ancor quello che travolge ieri stesso i reticolati con i cingoli duri e invincibili del suo carro. Lo scienziato che, lasciato il laboratorio, scandalizzò l'umanista italiano Cecchi mettendosi le scarpette chiodate e correndo su una pista con l'orologio in mano, è ancor quello, credete, che ieri stesso ha dato impulso nuovo alla chimica e alla fisica ideando la mostruosa bomba atomica.

"E io vedo popoli in gara leale lungo le immense interminabili corsie della storia. Vedo popoli alternarsi al comando, superarsi e vincere. Quei popoli, dico, i quali hanno saputo raggiungere l'equilibrio perfetto tra possibilità fisiche e sviluppo mentale. Allora m'è facile, capite?, vedere in ogni conduttore di popoli, di eserciti un coach. Mal si presta la nostra lingua a queste immagini: ma sai tu lettore che sia un coach? Un semplice allenatore: un uomo che insegna ai giovani a migliorarsi, a prodigarsi e a vincere. Sì, noi abbiamo bisogno di un coach, ora: anzi, di molti buoni coaches. Forse ne abbiamo, chissà? E verranno fuori, allora.Intanto si riaprono gli stadi, italiani, le piste, gli attrezzi gli impianti si riattano alla ripresa. Diamoci dentro a rinnovare il sangue. Torni il mossiere a sparare i suoi colpi per il via. Ma questa volta a salve, buon Dio: finalmente dei colpi a salve.

Last Updated on Monday, 15 July 2019 16:38
 
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