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Gabriele Manfredini Memories, from Harry Marra, the coach of Ashton Eaton PDF Print E-mail
Tuesday, 09 February 2021 00:00
Per tutti coloro che frequentano il mondo delle prove multiple, Combined Events  o Épreuves Combinées per gli habitués del jet set internazionale, per noi Decathlon e Heptathlon (oggi, prima Pentathlon) come abbiamo imparato da piccoli, il nome di Harry Marra ha qualcosa di mitico. Non è un atleta, è un allenatore, termine che ci è sempre piaciuto molto di più del generico «tecnico» che ci fa venire in mente il tecnico della caldaia o della irrigazione del giardino. Coach, lo chiamano gli americani, e quando dicono Coach è una forma di grande rispetto, una specie di Maestro da noi. Harry Marra è un Coach. Marra, cognome molto diffuso nelle nostre regioni meridionali. E da lì (ma non ricorda il nome esatto del paese) approdarono, emigranti come tanti altri, negli States i suoi nonni, i quali ebbero tredici figli, e il tredicesimo fu poi il padre del nostro Harry. Il quale nacque ad Albany, nello Stato di New York, 73 anni fa. Ha avuto una superba carriera com allenatore delle Prove Multiple, che si può riassumere in questi dati essenziali: ha allenato nelle università di Santa Barbara, Springfield College, San Francisco State University  e University of Oregan; fra il 1990 e il 2000 ha ricoperto l'incarico di coach nazionale della squadra USA di decathlon.
Il suo capolavoro è stato Ashton Eaton, al quale ha dedicato parecchi anni come personal coach. L'atleta di Portland ha inanellato fra il 2012 e il 2016 una serie di risultati sensazionale: due titoli olimpici, due mondiali e tre mondiali al coperto, e inoltre cinque primati del mondo, due nel decathlon e tre nell'heptatlhon in pista coperta. Harry allenò anche la moglie di Ashton, la canadese Brianne Theisen, un bronzo olimpico e un oro ai mondiali indoor.
Ha ricevuto due prestigiosi ricoscimenti:  nel 2012 il NIKE Coach of the Year, e nel 2016 lo IAAF Coach of the Year.
Incontrammo Harry al meeting internazionale Multistars di Brescia negli anni '90, quando accompagnava alcuni dei suoi atleti yankee: Sheldon Blockburger, Brian Brophy, l'estroverso Paul Terek, un concentrato di simpatia e disordine. Fra gli altri «più 8.000 punti» Bart Goodell, Paul Foxson, Chris Wilcox; Harry fu anche uno dei promotori del Progetto VISA per aiutare la carriera dei decatleti. Dopo il ritiro improvviso di Eaton all'inizio del 2017, Marra è ora impegnato in un programma denominato Gold Medal Motion; se qualcuno ne vuol sapere di più questo è il link https://www.dogoathleticadvisors.com/harrymarra
La sua frequentazione del meeting bresciano lo portò a contatto con Gabriele Manfredini che per tanti anni ha gestito con il fratello Ruggero la informatizzazione dei risultati,, per il quale sempre nutrì profonda stima, oltre che una esuberante amicizia. Proprio per questo ci ha mandato alcune linee per ricordare Gabriele, un ricordo che pubblichiamo con piacere.
 
Nelle foto: il coach Harry Marra;  a destra, Gabriele Manfredini, durante una Assemblea ASAI a Firenze qualche anno fa, con in mano una copia del suo interessantissimo libro sulla storia del decathlon in Italia dalle origini al 1968
 
 
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On behalf of all the ASAI Members we want to thank Harry, who wrote:
I remember my first meeting Gabriele as clearly as if it were yesterday.  It was in May, 1993, Brescia, Italy on the evening before the start of that years Multistars Meeting.  While Manfredini spoke very little English and I spoke very little Italian, I could sincerely sense his kindness, respect, sincerity and open friendliness to myself and the decathletes I brought to compete in Multistars.  We developed a lasting respect and friendship at that moment.
Manfredini was a quiet man, but the quality of his work and support for all in Combined Events spoke loud and clear.  He was a true professional. We saw each other each year at the Multistars, Hypo Bank and Talence Meetings around the globe.  Always was there that soft Italian smile on Manfredini's face when we first caught a glimpse of each other in those special times.
 
I will miss seeing him; the community of CE will miss his quality of work; and the world is a bit less friendly with his passing.  Manfredini , during his time on this earth, has made a quality and lasting contribution to all of society.  We should all aspire to follow his example.

RIP my friend.  May God welcome you with open arms.  You left lasting footprints of your journey here on Earth.  
 
Last Updated on Tuesday, 09 February 2021 22:07
 
Luc Vollard resta alla guida della Commissione francese Documentazione e Storia PDF Print E-mail
Friday, 05 February 2021 10:24

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Rinnovata per il prossimo quadriennio la composizione della Commissione Documentazione e Storia della Federazione francese di atletica (F.F.A.), che ha festeggiato da poco, seppure in sordina causa la situazione sanitaria, il traguardo dei 100 anni, ma ha surrogato con la pubblicazione di uno splendido libro commemorativo. Nei giorni scorsi, proprio la Federazione ha approvato la lista dei 14 membri della Commissione, che è un organismo riconosciuto e regolamentato nello Statuto federale.

Luc Vollard è stato confermato alla guida della Commissione. Il team ha subíto poche variazioni: tre nuovi ingressi nel gruppo, quelli di Anne Roger e Ivan Moreau (che erano già stati nella Commissione qualche anno fa) e di Sophie Félix. Questi i 14 membri per il prossimo quadriennio: Luc Beucher, Alain Bouillé, Gérard Dupuy, Vincent Guignard, Philippe Guilbaud, Sophie Félix, Vincent Kropf, Ivan Moreau, Anne Roger, Gilbert Rosillo, Yves Seigneuric, Emmanuel Tardi, Luc Vollard, Pierre Weiss.

Cogliamo l'occasione per esprimere il nostro ringraziamento agli amici francesi per la cordiale ed efficiente collaborazione che ci offrono, collaborazione che si intensificherà nel prossimo futuro, nei siamo certi. On pense que nous avons fait et on peut faire ensemble du bon travail.

Last Updated on Saturday, 06 February 2021 08:43
 
Orlando Cesaroni, Arturo Balestrieri e perfino il grande tenore Beniamino Gigli PDF Print E-mail
Wednesday, 03 February 2021 00:00

Augusto Frasca ci conduce oggi con il suo racconto ad un altro protagonista dello sport pedestre dei primissimi decenni del Secolo XX: Orlando Cesaroni, corridore romano di lunga lena, che si allenava e faceva le gare a piedi scalzi. È una bella storia che intreccia altre storie, che riporta alla memoria del lettore nomi, professioni e avvenimenti che compongono il mosaico storico della nostra Nazione: giornalismo, arte, opera lirica, di anni che datano fra i cento e centoventi anni fa.

Di Cesaroni si era occupato anche Marco Martini (citato dallo stesso Frasca) in una voluminosa compilazione storica in tre volumi, che vide la luce fra il 2003 e il 2007, grazie al mecenatismo degli organizzatori della Maratona di Roma: «Il segreto dei pionieri» e «Storia dell'atletica laziale». Quasi pleonastico aggiungere che si trattava di uno studio approfondito del podismo prima e dell'atletica poi, dalle origini fino al 1975. Da quei libri abbiamo ripreso le due immagini che corredano il testo di Frasca, immagini di non buona qualità ma dobbiamo fare di necessità virtù.

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Nella foto sopra: Orlando Cesaroni (maglia bianca) con un altro campione romano dell'epoca, Ettore Blasi, l'immagine è datata 1920. In quella sotto: Cesaroni, contornato dal consueto sciame di ciclisti, solitario al comando della Maratona di Roma, il 9 settembre del 1911 (Le foto sono riprese dai libri di Marco Martini che citiamo nella presentazione)

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I  piedi scalzi di Orlando

di Augusto Frasca

Mezzo secolo prima di Bikila. Bianco, romano, fornaio. Arti selvatici, secchi, incalliti. Correva a piedi nudi in un mondo podistico cui dagli esperti fu a lungo graziosamente sconsigliato bere acqua sia in allenamento sia in gara. Nella primavera del 1929 una febbre alta bloccò la struttura longilinea di Orlando Cesaroni in un albergo popolare di Brooklyn alla vigilia dell'impegno nella traversata da New York a Los Angeles: un'avventura, quella corsa, una follia, un far west di ritorno, una miniera multietnica, un lungo giallo costruito in settantotto tappe giornaliere e in immensità di genti e territori da un'umanità deambulante fatta di dannati e di eroi, di ricchi e poveri, di bianchi e neri, di mariti fatti becchi da mogli infoiate, di nobili squattrinati e di coatti con obbligo di firma inseguiti dal Federal Bureau Investigation, un picaresco caravanserraglio, sicuramente di forte carica suggestiva, per di più esaltato dalle esoteriche diversità di un territorio allungato in migliaia di chilometri.

Orlando Cesaroni era nato a Roma all'inizio dell'ultimo decennio del diciannovesimo secolo, quasi in coincidenza con i tempi in cui Il Messaggero apriva le sue pagine, primo tra i quotidiani nazionali, ad una rubrica sportiva, dando quindi spazio alle imprese da strapaese domestico di un concittadino che andava incrociando polvere, gambe e polmoni con i grandi dell'epoca, da Dorando Pietri ad Emilio Lunghi fino a Pericle Pagliani, lo strillone di Magliano Sabina involontario propiziatore, in un giorno d'aprile del 1904, nella piazza centrale di Carpi, della saga che avrebbe reso immortale con la corsa del secolo il piccolo uomo nato diciannove anni prima a Mandrio di Correggio. In Italia e a Roma sport e corsa erano polifonia pura in quel grande teatro della strada suscitatore di passioni dove spesso gli uomini si ritrovano uguali, un linguaggio di robusta schiettezza popolare contrapposto agli agonismi d'élite, anch'essi all'epoca di moda, come scherma, equitazione, tiro a volo. Retta da Pio X, un Pontefice d'origini venete vincitore in gioventù d'una gara di marcia nella nativa Riese, la stessa Santa Sede aveva aperto le mura del Vaticano ospitando nel settembre del 1908 gare di atletica con italiani, belgi, canadesi, francesi e irlandesi su una pista di quattrocento metri e a cinque corsie allestita nel cortile del Belvedere.

L'Italia atletica d'inizio secolo ventesimo era quella che aveva in Arturo Balestrieri il massimo ermeneuta. Sulle pagine della Gazzetta, a sua firma veniva esaltato «il magnifico ruolo avuto dal Lazio nella evoluzione degli sports atletici della nostra nazione, anche quando questi sports fiorivano giocondamente nelle altre regioni, e piùspecialmente nel Piemonte, nella Lombardia e nella Liguria». Di quelle epoche, Balestrieri fu dunque figura di spicco, e ne avemmo direttamente conferma in occasione delle celebrazioni dei centoventi anni della Polisportiva Lazio dalle mani della nipote Erika, attenta custode di documenti originali conservati nella sua abitazione di Albissola. Fu atleta polivalente, vincitore tra l'altro delle prime tre edizioni del Giro di Roma di marcia, cedendo poi il posto a Silla Del Sole. Ufficiale nei Cavalleggeri di Montebello, medaglia al Valor civile per aver tratto in salvo nel 1899  dal Tevere un individuo «precipitatovi a scopo di suicidio», fu tra i fondatori, il 9 gennaio del 1900,  della Lazio, estensore di pubblicazioni tecniche di atletica, nuoto e pallacanestro, dirigente, arbitro di pugilato, segretario della Federazione Podistica Italiana, giornalista nelle edizioni olimpiche di Stoccolma, Anversa, Parigi e Amsterdam. Nel 1934, sessantenne, all'abbandono della sua attività professionale, la Gazzetta lo salutò con queste parole: «Raggiunti i limiti d'anzianità stabiliti dalle norme contrattuali il camerata ed amico cav. Uff. Balestrieri rag. Arturo, il quale militava fedelissimamente nei ranghi redazionali della Gazzetta dello Sport dal 1909, dopo esserne stato il corrispondente da Roma, ha cessato il suo abituale lavoro in questi giorni. Al collega che con competenza, probità e fede inestinguibili, ha offerto il meglio delle proprie capacità fisiche e intellettuali alla causa dello sport – perché Arturo Balestrieri è stato anche dei primi valorosi campioni del podismo italico – la Gazzetta rivolge il saluto affettuoso e cameratesco».   

Tornando a Cesaroni, è il caso di sottolineare che negli oltre venti anni di carriera il podista romano corse centinaia di gare, gran parte delle quali nella capitale ma non disdegnando, secondo certosino recupero filologico realizzato da Marco Martini, trasferte a Milano, Torino, Modena, Genova, Napoli, Bordighera. Apogeo, nel 1911, la conquista del titolo italiano sulla massima distanza tra le mura di casa, 41 chilometri in 2h41:27, in una Roma impegnata nelle celebrazioni del Cinquantenario dell'unità d'Italia attraverso gli spettacolari allestimenti dell'Esposizione Universale, sparsi in particolare tra l'antica Piazza d'Armi, l'attuale quartiere Prati, e Valle Giulia, con Gustav Klimt e gli eccezionali rivoluzionari del Futurismo pronti ad affondare la lama sulla pelle di un mondo artistico nazionale addormentato, solito svegliarsi solo per soffiare scandali sulle novità.  

Momento fortunato per il nostro amico, nel 1913, l'incrocio con maglia ed ambienti dell'Audace, lo storico club di via Frangipane – quattro passi dal Colosseo, dal Mosè di Buonarroti, dalla loggetta in via Cavour disegnata da Raffaello – società celebre per avere tra i suoi tesserati Enrico Toti e Beniamino Gigli, l'eroico bersagliere mutilato caduto sul Carso e il tenore glorificato nei teatri di tutto il mondo. Quando, a trentanove anni suonati, incuriosito dall'eccezionalità della gara ma inchiodato, senza una lira nel portafogli, dagli esiti del vaccino iniettatogli a Napoli, fu costretto a rinunciare ai 5.927 chilometri della New York-Los Angeles, la Trans American Foot Race, il podista romano dovette alla comune appartenenza all'Audace la svolta insperata d'un momento disgraziato. A conoscenza delle difficoltà del connazionale, fu il cantante nativo di Recanati, per intere stagioni dominatore al Metropolitan sulla scia di Caruso e la cui bellezza vocale si accompagnava a una non comune generosità, a toglierlo d'impiccio. Lo ospitò nella sua residenza nuovaiorchese fino al ristabilimento della salute, mettendogli poi in tasca tremila lire, somma necessaria per il viaggio di ritorno, e per qualcosa di più. In quell'occasione, l'Italia podistica del tempo fu comunque magnificamente rappresentata da Giusto Umek, l'impetuoso patriota triestino sostenuto nella trasferta dalla Fernet Branca e dall'appoggio personale di Luigi Barzini, direttore al Corriere d'America, terzo al traguardo della corsa inventata l'anno avanti su percorso inverso, dalla costa pacifica a quella atlantica, da Charles Pyle, un avventuroso agente di sportivi e di gente di teatro. Quanto avventuroso fosse l'organizzatore s'ebbe conferma al momento della riscossione dei premi: in luogo dei 6.500 dollari spettanti al terzo classificato, ad Umek non restò in mano che la notifica della fuga di Mr. Pyle, e con essa la scomparsa dei 25 dollari d'iscrizione e 100 di deposito a testa versati dai 90 partenti da New York. Dalla Trans American Foot Race, Tom McNab, scozzese, ha tratto un'affascinante lettura, La sfida di Flanagan, tradotta e pubblicata nel 1983 nella nostra lingua da Sperling&Kupfer.   

Raggiunti i quarantuno d'età, mentre affinava le sue doti professionali di massaggiatore nelle società romane, Lazio calcistica compresa, nel 1931 Cesaroni decise di mettere un punto all'attività agonistica e di lasciare nero su bianco una memoria scritta delle sue gare, trovando nella romana Edizioni Gloria spazio per la pubblicazione di un pressoché introvabile Le mie 39 maratone. Non avendo tra le mani l'introvabile, resta un mistero glorioso conoscere le ragioni del perché, in inizio di Novecento, un uomo avesse deciso di farsi crescere i calli correndo a piedi nudi. Orlando Cesaroni morì a Latina, nel 1954.  

Last Updated on Wednesday, 03 February 2021 11:57
 
Stefano Mei eletto nuovo presidente della Federazione italiana di atletica leggera PDF Print E-mail
Sunday, 31 January 2021 22:01

Stefano Mei, campione d'Europa sui diecimila metri nel 1986 sulla pista dell'allora denominato Neckarstadion e una importante carriera come atleta iniziata fin dagli anni giovanili, e' stato chiamato dalla Assemblea tenuta oggi a Roma alla carica di presidente della Federazione italiana di atletica leggera. I candidati erano tre: oltre a Mei, Vincenzo Parrinello e Roberto Fabbricini. Dopo la prima votazione sono rimasti in corso Mei e Parrinello, e nel successivo ballottaggio le urne hanno assegnato il successo a Stefano Mei.

Per quanto ci riguarda, auguriamo a Stefano Mei di essere all'altezza del compito che lo attende.

Last Updated on Sunday, 31 January 2021 22:36
 
Edoardo Giorello, schivo patriarca di una atletica di un tempo che non ritorna PDF Print E-mail
Saturday, 30 January 2021 00:00

È trascorsa una settimana da quando Edoardo Giorello ha lasciato i suoi cari e i suoi amici, fra questi alcuni di noi che con lui hanno avuto, nel tempo, consuetudine di frequentazioni. Abbiamo cercato di raccogliere materiale per prendere congedo da lui e per non dimenticarlo. Ci siamo rivolti a chi lo ha «visto da vicino». Pasquale Bongiorno, atleta nei suoi anni giovanili allenato da Edoardo e con lui co-autore di alcune pubblicazioni di questi ultimi anni, ci ha messo a disposizione una completa selezione di foto del tempo che fu. La penna (oggetto virtuale ormai, da mercatino vintage) di Guido Alessandrini ha riempito una pagina di intimo e affettuoso ricordo dell'uomo che fu suo allenatore negli anni '70, "primo e unico" ha aggiunto lui. Genovese, aspirante velocista negli anni giovanili, rigoroso e preparato giornalista in quelli della maturità nel quotidiano sportivo torinese «Tuttosport», oggi, lasciato il giornale, «spalla» del telecronista della RAI Franco Bragagna per gli eventi dell'atletica leggera.

Non vogliamo guastare immagini e parole con superflui nostri commenti. Vi lasciamo alla lettura, ringraziando Pasquale e Guido per il loro contributo.

Le foto. La prima: siamo negli anni '70, cambio della staffetta Marathon Relay fra Giorello (con la maglia del Liceo Mazzini) e Paolo Boretti, uno dei migliori velocisti liguri di ogni tempo. La seconda: Edoardo, a braccia incrociate, in veste di allenatore con un gruppo di suoi atleti, sempre negli anni '70. La prima verticale, a sinistra: il giovane Giorello riceve incoraggiamento dal suo allenatore Michele Autore, uno dei primi tecnici innovatori delle metodologie di allenamento per i mezzofondisti, la foto data 1958. Infine il nostro nei panni di organizzatore: fu, per esempio, tra coloro che diedero vita alla Mezza Maratona di Genova.

 

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Il Prof se n’è andato. Strano. Perché qualunque fosse il “campo” (nel senso di impianto sportivo: scusa, non possiamo vederci perché alle cinque devo andare “al campo”) e qualunque fosse il clima, lui c’era. Sempre. Lo sanno tutti i ragazzi che Edoardo Giorello ha allenato nell’ultimo mezzo secolo. Per l’ultimo saluto eravamo in tanti, quasi tutti ormai ex ragazzi ma anche un piccolo esercito di giovani che l’hanno avuto come insegnante al liceo. E poi colleghi, amici, insomma la vasta comunità che un uomo di poche parole ma molti fatti ha coltivato pazientemente lungo la propria vita.

Edoardo Giorello è stato il mio allenatore. Per dieci anni. Traduco: era il mio punto di riferimento. Da lui ho scoperto e capito l’atletica, il rigore, le metodiche di allenamento, i programmi personalizzati (fogli di quaderno con i disegnini degli esercizi, le posizioni, i tempi, le distanze delle ripetute, i recuperi) ma anche cos’è lo sport. Cioè: prima l’ho assorbito, dopo l’ho capito. Anche Dado è arrivato dopo, quando avevo lasciato il campo per la redazione torinese di Tuttosport: “Adesso basta lei, dammi del tu”.

Dopo ho capito che anche grazie a lui avrei fatto il giornalista, scrivendo sul bollettino autarchico e ciclostilato (Chiamate Cus 303001) dove si occupava di statistiche e commenti. E che quei suoi numeri, liste, primati e ripresa del passato si chiama memoria e che la memoria è importante e senza quella siamo ben poco.

Dopo, appunto, mi ha chiesto qualche articolo per i libri con i quali ha ricostruito la storia del Cus Genova ma anche dell’Amatori e dell’atletica ligure, aiutando gli ormai pochi che danno il valore a quel che è stato, a conservare la propria storia. Ecco, lì ci siamo capiti proprio bene perché prima, insomma, mica mi ero accorto che oltre al cronometro e alle liste stagionali c’era un universo.

Dopo ho capito l’importanza di un certo tipo, preziosissimo e incancellabile, di territorio: il centro del secondo del rettilineo del Carlini e la siepe all’uscita della prima curva di Villa Gentile (i nostri due “campi”) erano le tane da cui noi ragazzi ci muovevano per le ripetute e a cui tornava un gruppo di atleti diventati, sera dopo sera e anno dopo anno, amici. Lui era lì, al centro di tutto. E certi pomeriggi, dopo le cinque, ancora adesso la nostalgia di quel territorio punge e insieme scalda il cuore. E riemerge il ricordo di nomi e caratteri di quegli anni Settanta: Mario Boldrin, il primo talento, e poi Boretti, Bertolotti, Falletta, Campazzo, Sommariva, Stragiotti, Porri, Buongiorno (che da Dado ha preso il testimone trasformato nell’”Onda Biancorossa”, il libro del cinquantenario cussino che lascia viva una passione, una testimonianza e direi anche una speranza già alimentata da Angela Cartasegna, compagna di Edoardo).

Dopo ho capito che è stato uno dei, come dire, soci fondatori della sezione atletica del Cus Genova, che a fine 2019 ha celebrato appunto i cinquant’anni: primo allenatore di una pattuglia rivoluzionaria, e lui pronto a dimezzare il proprio piccolo stipendio di tecnico pur di avere un collega (Alberto Tartarini, un mito) che facesse decollare la squadra femminile. È stato realmente un costruttore, raccogliendo a scuola talenti grandi, medi o anche minuscoli perché può sempre capitare che la squadra ne abbia bisogno: qui non si butta niente. Uomo di poche parole, il Giorello. E anche di confronti aspri, fino al punto da portarlo fuori dal Cus (all’Amatori e al Trionfo Ligure, allora rivali) fino alla riconciliazione finale (“È bello chiudere dove si è cominciato”).

Dopo ho capito che quella sua stravagante passione per la maratona – lui nato ostacolista-velocista e allenatore di velocisti – era una filosofia di vita e insieme una doppia strada: da una parte la soluzione perfetta per faticare finalmente in solitudine e raggiungere ferocemente e con metodo i suoi nuovi obbiettivi e dall’altra la chiave per entrare in contatto con un’altra comunità, quella delle corse lunghe, dove ovviamente, anche lì, ha scoperto come organizzare, inventare, coagulare, aiutare. 

È stato un addio mesto ma bello, avvolgente. Forse anche perché padre Buono ha usato le parole di tutti noi, ricordando quando anche lui – anni Settanta - veniva “al campo” per farsi allenare da Dado (“e il giorno che sono stato ordinato sacerdote e me lo sono trovato davanti senza preavviso, mi ha abbracciato ed è scoppiato a piangere...”). Per quell’ultimo saluto allo schivo e un po’ ruvido patriarca si è materializzata una sceneggiatura che gli sarebbe piaciuta molto: mattinata d’inverno ma tiepida, sole splendido che – davvero - ha accarezzato con delicatezza e con affetto tutti quanti. E poi si era lassù arrampicati ad Apparizione, a due passi da casa sua e a una spanna dalla vetta del monte Fasce, con una vista su Genova, sul mare e sulla costa da rimanere senza fiato. Dado riposa lì, vicino alla chiesa, quasi potesse controllare dall’alto quello che combiniamo. Cercheremo di fare i bravi.

Ciao Dado.

Last Updated on Saturday, 30 January 2021 10:34
 
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