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«Trekkenfild» racconta la sua Olimpiade vissuta nel silenzio della notte italiana PDF Print E-mail
Saturday, 21 August 2021 12:02

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«Trekkenfild» numerone 98, dieci pagine orchestrate sulle note dell' Inno alla gioia (ode di Friedrich Shiller inserita nel quarto movimento con coro della Sinfonia n.9 di Ludwig van Beethoven). Visti i risultati ottenuti (inaspettatamente per quasi tutti, prima, meno inaspettatamente per quasi tutti, dopo) nella capitale giapponese logico fare addirittura il bis della Sinfonia beethoviana. In tutte le vicende umane c'è sempre un prima e un dopo. Adesso siamo al «dopo» che è molto meglio del «prima». Vi lasciamo alla lettura, come sempre. E alla riflessione.

Last Updated on Monday, 23 August 2021 14:30
 
Volodymyr Holubnichy, uno dei più grandi marciatori di sempre, si è fermato PDF Print E-mail
Wednesday, 18 August 2021 00:00

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Alle 14 del 16 agosto, ora di Kyïv, se ne è andato Volodymyr Holubnichy, uno dei più grandi marciatori di ogni tempo. La telegrafica notizia ci è arrivata poco dopo per email dal nostro caro amico Alex Kolenko, che per alcuni anni ha lavorato, con competenza e abnegazione, al Dipartimento Competizioni della Federatletica mondiale.

Volodymyr Stepanovych Holubnichy era nato in Ukraina, nella città di Sumy, il 2 giugno 1936, aveva quindi compiuto da poco 85 anni. Nacque in un periodo tremendo della vita del suo Paese. Nel 1932 e '33 Stalin, per punire il popolo ukraino che odiava profondamente, varò una politica agraria che ridusse alla fame molte regioni dell'Unione, non solo l'Ukraina, provocando milioni di morti, gli storici parlano di almeno cinque, di cui quattro solo ukraini. Fu un vero e proprio atto di genocidio, da paragonarsi a quello degli ebrei nei campi di sterminio nazisti. Si hanno testimonianze di atti di cannibalismo. Gli ukraini hanno chiamato questa tragedia della bestialità umana «Holodomor», ossia sterminio per fame. L'Ukraina è sempre stata definita «il granaio d'Europa»...

Nel 1936, quando ancora gli effetti di questo stermino erano evidenti e in pieno periodo (37-38) di purghe staliniste, nacque Volodymyr, il quale dovette anche subire per due anni (41-43) l'occupazione delle truppe naziste, arrivate fino a Sumy sull'onda dell'Operazione Barbarossa. Le truppe nazi massacrarono oltre centomila ukraini, in gran parte ebrei, nella tristemente famosa località di Babi Yar, un lungo e stretto burrone vicino alla città. Nonostante tutto il giovanetto Volodymyr (noi usiamo la scrittura ukraina, come ci ha insegnato Kolenko) crebbe di sana e robusta costituzione, proporzionato, circa 180 centimetri per 77-78 chilogrammi, un uomo forte insomma.

Abbiamo trovato le prime «orme» sportive del giovanotto nel 1953, aveva diciassette anni: 45:29.2 sui 10000 metri in pista; come raffronto: Pino Dordoni l'anno prima aveva marciato in 46:02.2. Che fosse predestinato ad una grande carriera lo si capì ancor meglio nel 1955, quando a Kyiv, il 23 settembre, stabilì -1ora 30:02.8 - la miglior prestazione mondiale sui 20 km (non era primato mondiale, non esisteva ancora la assurda pensata di riconoscere come primati veri e proprii risultati fatti su strada). Volodja aveva diciannove anni.  La 20 km era stata giusto introdotta  per la prima volta nel programma olimpico dei Giochi di Melbourne '56, ma lui non potette andare: una brutta infezione al fegato, forse eredità delle schifezze che aveva dovuto ingurgitare da ragazzino, lo mise in pericolo di vita. Ci vollero un paio d'anni per riprendersi, ma nel 1958 strabiliò tutti marciando, in pista, in 1:27:05. Fece ancora meglio nel 1959, sempre in pista, a Odessa: 1:26:13.2, tempo però mai riconosciuto per qualche stranezza burocratica. Forte di questi risultati in patria, avrebbe dunque marciato sulle strade romane nei Giochi del 1960, lungo le quali raccolse l'alloro della vittoria, non senza fatica, contrastato da due che parlavano inglese: l'australiano Freeman e il britannico Stan Vickers, campione europeo due anni prima a Stoccolma.

Dopo i Giochi Olimpici romani, la carriera di Volodja segna tanti altri successi e medaglie. Campionati d'Europa a Belgrado 1962: terzo; in quelli del '66 a Budapest secondo; fino a vincere il titolo continentale nel '74 a Roma, la sua città portafortuna; all'epoca aveva già compiuto 38 anni. In mezzo, il tempo è scandito dalle Olimpiadi. Tokyo 1964: terzo dopo il britannico Ken Matthews e il tedesco est Lindner; Ciudad de Mèxico 1968, primo, al termine di un finale incredibile. Brevemente ve lo raccontiamo: l'ukraino entra primo nello stadio, dietro di lui il connazionale Nikolay Smaga, sembra doppietta sicura. Improvvisamente entra un messicano, José Pedraza, che i suoi connazionali chiamavano «El Sargento Pedraza», quindi notissimo fra la gente. Il sergente inizia una volata...da far impallidire Tommie Smith, il grande velocista americano, supera Smaga e va ad avvicinarsi a Holubnichy, che mette in salvo la vittoria per un secondo e sei decimi. Le tribune ribollono, i messicani sono scatenati, furiosi, il Sargento contribuisce con una sceneggiata come se lui fosse stato il defraudato. E i giudici? Beh, quelli...si erano calato il sombrero sugli occhi e stavano facendo la siesta. Tre note: Holubnichy e Smaga si erano sempre allenati con lo stesso coach, Vasyl Polyakov; el Sargento Pedraza conquistò la prima medaglia olimpica (in atletica) per il suo Paese; un italiano solo in gara, Pasquale Busca, dodicesimo. Quarta Olimpiade, München 1972: Volodymyr secondo incastrato fra quattro tedeschi di Pankow, vinse Peter Frenkel, quinto ancora Smaga, ottavo Vittorio Visini. Montreál '76, il congedo: finì settimo, fra due italiani, Armando Zambaldo e Visini. Un soddisfazione: fu ancora il migliore dei sovietici.

Abbiamo posto la domanda a Sandro Damilano: chi sono stati i migliori «ventisti» di sempre? "L'ukraino il più grande di tutti, per medaglie e longevità agonistica sempre ad alto livello. Subito dopo metto l'ecuadoriano Jefferson Perez e mio fratello Maurizio. Altri grandi ma più staccati nel giudizio il messicano Daniel Bautista, il tedesco Reimann, il sovietico Michail Ščennikov, lo spagnolo Francisco Fernández, pur con la riserva per i grossi problemi che ha avuto".

Chiudiamo con una considerazione tutta nostra. Pensate le contraddizioni della vita: dall'essere vicini a morire di fame per scellerata scelta di un dittatore a ricevere alcune delle più alte onorificienze dell'URSS, di quello stesso Paese: l'Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro, la Medaglia al Valor Civile dell'Unione Sovietica e la Medaglia al Valore del Lavoro. La terra ti sia lieve insieme a tutte le tue medaglie, Volodja.

Last Updated on Monday, 23 August 2021 14:31
 
E una volta spenti i fuochi d'artificio? Riflessione di Carlo Giordani sul dopo Tokyo PDF Print E-mail
Tuesday, 17 August 2021 17:12

Ci è stata fatta una segnalazione: sul sito di un nostro socio è stato pubblicato un articolo di Carlo Giordani, presidente delle U.S. Quercia Rovereto Trentingrana, organizzatrice del Meeting della Quercia (31 agosto) e dei recenti Campionati italiani assoluti. L'articolo è apparso sulle pagine del quotidiano «l'Adige», giornale dove Giordani ha lavorato per circa quaranta anni come giornalista. Lo scritto del dirigente trentino getta uno sguardo disincantato sullo sport italiano dopo i trionfi di Tokyo. Vi sembra strano? No, ricordatevi il famoso detto «Finuta la festa, gabbatu lu santu». Per chi volesse leggere, questo è l'indirizzo https://www.collezioneottaviocastellini.com/.

Last Updated on Tuesday, 17 August 2021 17:20
 
1963: Ottolina, Preatoni, Sardi, Berruti sulla pista del Campo Scuole di via Morosini PDF Print E-mail
Sunday, 15 August 2021 00:00

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Da sinistra, calzoncini bianchi e torso nudo, l'allenatore Gianni Caldana; seminascosto Ennio Preatoni; di fronte, con gli occhiali, Armando Sardi; maglietta bianca a strisce nere e la scritta Carpano, il campione olimpico Livio Berruti; di spalle, Sergio Ottolina

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Stesso gruppo fotografato da altra angolazione (le quattro foto provengono da una Collezione privata)

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Sopra: Livio Berruti si esibisce in un facile allunghino a beneficio del fotografo. Sotto il podio dei 100 metri dei Campionati italiani che si erano tenuti un paio di settimane prima a Trieste: da sinistra, il giovane Ennio Preatoni (terzo), Armando Sardi  (secondo nei 100 e primo nei 200) e Sergio Ottolina, che indossa la maglia di campione d'Italia, ovvero il dominio dei lombardi nello sprint

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Era d'estate, anno del Signore 1963, cinquantotto anni fa. Era d'agosto. Pista del Campo Scuole di via Morosini, ando' sta? A Brescia, il giornale locale lo indicava nelle sue cronache come «lo stadio di atletica leggera per gli studenti».  Era inserito in un contesto urbano che metteva tristezza. È uno dei tanti campi che furono costruiti negli anni '50 e '60 un po' ovunque in Italia, ossatura su cui furono edificate le sorti dell'atletica italiana per alcuni decenni. Quello bresciano fu inaugurato il 4 maggio 1955 con la finale dei Campionati Studenteschi: c'erano dei ragazzi che rispondevano ai nomi di Gian Piero Cordovani (alto, sfiorò spesso i due metri), Gian Battista Paini (poi ottimo 800centista), Ugo Ranzetti (una presenza costante per settant'anni nello sport bresciano, atletica, rugby, istituzioni sportive, allenatore nazionale), Albertino Bargnani (mezzofondista di buon valore spronato dagli urlacci del suo mèntore Bruno Bonomelli), Vittorio Bonetti (poi allenatore dei lanci, burbero, brontolone, ma galantuomo), Aldo Bonfadini (che si cimentò nel salto in lungo, lui che era un corridore di campestre e di mezzofondo), Angelo Baronchelli, quel giorno secondo nel peso, che il prof. Calvesi tramutò poi in saltatore con l'asta, uno dei migliori in quegli anni. Per citarne solo alcuni. Il terreno  per quell'impianto era stato donato dal Comune al C.O.N.I., ed era situato dietro a una fabbrica chimica (Caffaro) che (lo sapevano tutti, vero? o no?) produceva...facciamo prima: andate a leggere questa illuminante storiella. E la storiella incredibilmente continua ancora oggi.

Intanto noi torniamo al mese di agosto 1963. Gli atleti nazionali erano reduci da un luglio impegnativo: il 13 e 14, a Enschede (Olanda) avevano affrontato il «Sei Nazioni» (era una specie di Unione Europea atletica di allora: Germania, Francia, Belgio, Italia, Olanda, Svizzera) e si erano piazzati terzi dopo Germania e Francia, con vittorie individuali di Roberto Frinolli (4 acca), il pisano Roberto Galli (inatteso, alto) e Silvano Meconi (peso); la 4x100 (Ottolina, Preatoni, Sardi, Giani) terza in 40.6 dopo i soliti tedeschi e francesi. La lettura dei risultati ci suggerisce tre ricordi. Nei 400 ostacoli, quarto fu il belga Wilfried Geeroms, che fu per alcuni anni la «voce» del mai sufficientemente rimpianto Meeting di Rieti di Sandro Giovannelli. Nel «Sei Nazioni» si correva anche la maratona: secondo fu Silvio «Sisso» De Florentiis, figlio di Umberto, ottimo corridore negli anni '30; Silvio è morto a Genova pochi mesi fa. Nel decathlon, terzo fu il tedesco Willi Holdorf che, l'anno dopo ai Giochi di Tokyo, avrebbe vinto il titolo olimpico.

Negli stessi giorni, ad Ascoli Piceno, l'Italia «B» affrontò l'Austria e la Grecia. E anche qui la lettura dei risultati suggerisce degli spunti. Secondo nella gara dei 100 metri il bresciano Enore Sandrini, marito di Donata Govoni, son vissuti a Pontedilegno, estremità settentrionale della Valcamonica, verso il Passo del Tonale; Enore, che vestì i colori dell'Atletica Brescia 1950, è deceduto pochi mesi fa. Parliamo di ostacoli: i 400 li vinse Tito Morale, i 110 Giovanni Cornacchia sul giovane Eddy Ottoz (14.4) che l'estensore della cronaca per il bollettino federale, Ruggero Alcanterini, etichettò come «disallenato»...Quinto? Un nome che per i cultori delle prove multiple è un mito: Konrad Lerch, l'uomo che con pochi altrì amici ideò, nei primi anni '70, il Meeting di Götzis, regione austriaca del Vorarlberg, e che anno dopo anno ha portato ad essere il Sancta Sanctorum delle prove multiple, talvolta superiore perfino ai Giochi Olimpici, come qualità di risultati. Taluni di noi hanno conosciuto Lerch, un gentleman e un organizzatore che puntava sempre alla perfezione.

La settimana dopo la folta famiglia atletica si trasferì a Trieste che, scrisse Alfonso Castelli su «Atletica», «era tutta una sinfonia di tricolore»: i Campionati nazionali erano stati assegnati alla bella città di Italo Svevo nel contesto delle celebrazioni del centenario della gloriosa Società Ginnastica Triestina. Quella edizione viene ricordata (da chi? mah...) per un evento che i «moderni» definirebbero storica, visto l'abuso che oggidì si fa dell'aggettivo e anche del sostantivo. Francesco Bianchi, mezzofondista di piccola taglia, pose il suo nome dopo quello di Mario Lanzi (due strutture fisiche all'opposto, Lanzi sembrava Maciste al confronto) nella tavoletta della progressione del primato nazionale degli 800 metri: 1:49.0 nel 1939, 1:48.7 Bianchi nel 1963. C'erano voluti ventiquattro anni per un progresso di tre decimi. Adesso limitiamoci alle vicende dei nostri quattro velocisti visti nelle foto bresciane. Ottolina: batteria, semifinale e finale nei 100, primo davanti a Sardi e allo junior Preatoni; poi corse la batteria dei 400, quella della staffetta 4x100 e la finale con il suo club, Gallaratese, gli altri erano Giani, Monetti (quell'Attilio Monetti che per almeno tre decenni abbiamo ascoltato fornire informazioni al commentatore nelle telecronache RAI) e Vincenzi: 41.7 le FF.OO. Padova, 41.8 il team lombardo. Sergio rinunciò quindi alla finale dei 400, e vorrei vedere...I titoli dello sprint andarono quindi a Ottolina e a Sardi, i 200 con largo margine su Giani. Unico assente Livio Berruti, che quell'anno vestiva la casacca del club Carpano, praticamente lui.

Finiti i Campionati, dopo qualche giorno, i velocisti si ritrovarono a Brescia, per la rifinitura del lavoro in vista dell'incontro (14 agosto) con gli inglesi al White City Stadium. Dirigeva gli allenamenti Gianni Caldana, l'ostacolista-velocista-lunghista che insieme a Mariani, Ragni e Gonnelli formarono la staffetta seconda ai Giochi Olimpici di Berlino '36, Caldana corse la seconda frazione contro un grande sprinter americano e altrettanto grande uomo come Ralph Metcalfe, immortalato in una foto nel gigantesco stadio berlinese il giorno dell'apertura dei Giochi, con 110 mila persone (dicono) in piedi con il braccio teso inneggiando ad un omino con i baffetti; lui, Ralph, pure in piedi, con le braccia lungo i fianchi. Questo vuol dire essere uomini. Nelle convocazioni dei velocisti c'era pure il finanziere Pasquale Giannattasio. Gli azzurri si ritrovarono a Milano, all'Hotel Andreola, il 13 agosto, un volo BE (British Europe) li portò a Londra: capitano Livio Berruti. La squadra incassò una brutta sberla: perse per venti punti (96 a 76). Vittorie individuali: Ottolina (200), Bello (400), Galli (alto), Scaglia (asta), Meconi (peso) e Rodeghiero (giavellotto). La 4x100 (Ottolina, Preatoni, Sardi, Berruti) fu seconda (40.4) a ridossso degli inglesi (40.3). Scrisse tal Alberto Cansai, a noi ignoto, su «Atletica»:" Ottolina ha compiuto una bella frazione...Preatoni ha tenuto testa brillantemente a Ron Jones...Sardi con una curva eccellente ha aumentato...e, all'ultimo cambio, Berruti ha preso il testimone con quasi due metri di vantaggio. Purtroppo l'olimpionico è troppo giù di condizione e per di più era irrigidito dal freddo, il che ha permesso al modesto Young di riprenderlo e batterlo sul traguardo".

Si conclude qui la nostra storiella che è nata dalla convergenza di tre accadimenti. Il primo: pochi giorni fa il nome di Armando Sardi è comparso fra coloro che si sono iscritti al Gruppo ASAI su Facebook. A stretto giro di posta arrivano alcune linee scritte da Lyana Calvesi Ottoz che dà il benvenuto al suo amico Armando, chiamandolo affettuosamente «Sardela», evidentemente un soprannome che si davano fra atleti. Infine, un nostro socio si è ricordato di possedere delle foto scattate a Brescia nell'agosto del 1963 in occasione di un raduno di velocisti in vista dell'incontro Inghilterra-Italia. Uno+uno+uno, e ne è uscita questa storiella.

Last Updated on Sunday, 15 August 2021 18:57
 
Franco Giongo, l'elegantone delle piste d'atletica con la bizzarra tuta-pigiama PDF Print E-mail
Monday, 09 August 2021 10:00

Con la pubblicazione della seconda parte, concludiamo la storia delle «sfide» fra velocisti che animarono la nostra atletica per una quindicina di anni fra il 1910 e il 1920. Al centro, la figura del bolognese Franco Giongo, che dovette misurarsi con diversi pretendenti al suo «trono» di miglior sprinter dai 100 ai 400 metri. Una volta conclusa la carriera sportiva, Giongo si impegnò anche in quella dirigenziale all'interno della F.I.S.A., la federatletica di allora (fino al 1926). Poi si dedicò completamente alla sua vera professione, il medico, e fu professore universitario di radiologia. Tutto questo, e altro ancora, ci ha raccontato nella sua ricerca Alberto Zanetti Lorenzetti, che qui ringraziamo.

*****

Le foto qui sotto, dall'alto in basso. Copertina del settimanale «La Stampa Sportiva» dell'ottobre 1914 dedicata al mezzofondista bustocco Carlo Speroni e a Franco Giongo che sfoggia la originale tuta-pigiama. Nella seconda, anno 1916, il tenente medico Giongo (in piedi al centro, con barba) con alcuni militari feriti o in convalescenza all'ospedale militare di Valona, in Albania; sdraiato su un lettino, con una gamba ingessata il capitano Franco Scarioni, redattore della «Gazzetta», inventore delle «popolari» di nuoto patrocinate dal quotidiano sportivo; Scarioni morì in un incidente aereo nel 1918: verrà intitolata a lui la conosciuta Coppa di nuoto. Nell'ultima: siamo a Berlino nel 1923, gara dei 100 metri, Giongo e il piccolo velocista istriano, di Pola, Vittorio Zucca ("Zucchetto" per i giornali) nel serrato finale: vinse il medico bolognese, che con quella gara pose fine alla sua carriera sportiva

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All’inizio dell’anno olimpico 1912, tesserato per il C.S. Padovano dopo gli screzi con i compagni del club torinese, Franco Giongo si dimostrò in ottime condizioni il 2 maggio a Milano stabilendo il primato nazionale dei 150 metri con 17 secondi netti e concludendo i 200 metri con l’ottimo tempo di 22”4/5. Giongo e Emilio Lunghi si evitarono ancora ai tricolori di Verona, che fungevano anche da selezione per i Giochi Olimpici: Giongo calò il tris, vincendo i 100, 200 (non validi come Campionato nazionale) e 400 metri. Da parte sua il genovese si impose nei 1200 siepi e con la staffetta olimpionica dello Sport Club Italia. Il 2 giugno a Milano un altro primato nazionale, stavolta sui 300 m con 36”4/5, alimentò le aspettative di buoni risultati del bolognese per Stoccolma. Invece andò incontro a una cocente delusione: fu eliminato in semifinale nei 100 e 200 metri, mentre nei 400 non riuscì nemmeno a superare le batterie. Trovò modo di rifarsi nei meeting all’estero, andando a vincere 100 e 440 yarde con tanto di primato italiano il 27 luglio allo stadio londinese di Stamford Bridge, preceduto solo da W. R. Applegarth, (bronzo olimpico sui 200 metri e oro con la 4x100) nelle 220 yarde. Sulla stessa distanza l’inglese lo superò anche a Praga dove Giongo però dominò la gara sulle 440 yarde. Tre mesi dopo vinse nuovamente il Prix Ravaut a Parigi. Il 1913 fu condizionato dalle precarie condizioni di salute, avendo contratto una brutta forma di paratifo. A settembre, non certo in buone condizioni di forma, ai Campionati nazionali venne eliminato in semifinale nei 100 metri e nella doppia distanza fu battuto in finale dall’outsider De Nicolai.

Ben altra musica nel 1914, anno del passaggio alla Virtus Bologna. Negli imperial-regi impianti sportivi d’Ungheria e Austria non ebbe avversari. A Budapest il 7 giugno vinse i 100 e 200 metri; la settimana dopo fu la volta delle 100 e 200 yarde, del primato italiano delle 220 yarde (22”4) e delle 300 yarde (32” netti), per poi migliorare il personale sui 400 metri, portato a 50”5. Dalle piste della capitale magiara si trasferì del Prater di Vienna; nei giorni dell’attentato di Sarajevo si impose nelle 100 yarde e 200 metri, coi primati italiani rispettivamente di 10” e 21”7. Lasciata la Mitteleuropa si diresse prima a Londra, poi a Parigi dove il 19 luglio si aggiudicò per la terza volta il Prix Ravaut nei 200 metri. I Campionati italiani, che si disputarono il 26 e 27 settembre a Milano, si annunciavano interessantissimi. E non delusero le attese. La gara di cartello era quella dei 400 metri, grazie al confronto diretto fra Giongo e Lunghi, che dopo quaranta mesi erano tornati a sfidarsi. L’incertezza per l’esito della corsa durò fino all’ultimo metro, poi fu premiata la rimonta del bolognese, al quale venne assegnato il tempo di 51”3/5. Commentò il «Corriere della Sera»: “È una meravigliosa corsa. Lunghi a centro metri dal traguardo ha quasi due metri di vantaggio su Giongo, ma questi riesce a portarsi di fianco a Lunghi col quale lotta fin sul traguardo, dove i due atleti sono separati da un insignificante spazio”. Fu un duello spettacolare e incertissimo che chiuse un’epoca. Entrambi si erano ben preparati per i tricolori. Il bolognese si aggiudicò addirittura quattro titoli italiani: 100, 200, 400 e 4x400 metri (col record italiano e battendo il quartetto di Lunghi), mentre il ligure si impose negli 800 e con la staffetta olimpionica. 

Nel 1915 l’Italia entrò in guerra. Giongo venne arruolato come ufficiale medico ed inviato sul fronte balcanico, per cui la sua carriera sportiva subì un inevitabile arresto. Lo spedirono in Albania, a Valona, dove fu scattata una fotografia, pubblicata dallo «Sport Illustrato», in cui posava con alcuni aviatori che avevano dovuto ricevere l’assistenza dell’ospedale militare. Fra questi c’era il capitano Franco Scarioni, giornalista di punta della «Gazzetta dello Sport», al quale andava il merito di aver ideato le “popolarissime” di nuoto, manifestazione di grande successo che, dopo la morte per un incidente aereo avvenuta a Castelgomberto (Vicenza) il 21 maggio 1918, gli fu intitolata.

Terminò il grande conflitto mondiale e tornarono ad essere organizzate gare e Campionati, ma di Giongo nessuna traccia. A sorpresa nel 1922 inviò una lettera alla «Gazzetta dello Sport». Il tono della missiva nulla aveva a che vedere con il personaggio d’anteguerra: pregava il quotidiano sportivo milanese di “non mandare corrispondenti e che non parlino di records! Io desidero semplicemente fare delle gare”. Aveva superato i 30 anni d’età e soprattutto la lontananza dalle gare era durata sette stagioni. In realtà la stoffa del campione c’era ancora tutta e ai Campionati italiani si piazzò secondo sui 200 metri preceduto da Paolo Bogani, anch’egli della Virtus Bologna, e conquistò il titolo nella 4x400 con il quartetto felsineo. Bisognava solo oliare un po’ le articolazioni. Ma il vero rivale da battere non era il compagno di squadra bolognese, ma un biondino di Pola, Vittorio Zucca. Questo atleta istriano si era presentato ai Campionati italiani del 1919 praticamente sconosciuto. Provenendo dalle “Terre redente” non si avevano notizie dei suoi risultati, ammesso che ne esistessero, ottenuti negli anni precedenti. Raggiunse la finale dei 100 metri e fu l’unico concorrente a partire in piedi, cosa che non gli impedì di vincere con il tempo di 11”3/5; ma molti espressero dubbi sul suo effettivo valore. Il velocista giuliano rivelò tutta la sua classe nel 1920, grazie anche alle cure dello statunitense Platt Adams, tecnico ingaggiato dalla FISA – la Federazione di atletica leggera dell’epoca – per selezionare gli atleti da inviare ai Giochi di Anversa, che gli insegnò come partire con i quattro appoggi. Si fece valere nelle preolimpioniche, superò le batterie venendo però eliminato nel turno successivo ai Giochi, corse i 100 metri in 10”7 e infine vinse i 100 e 200 metri ai Campionati italiani. Aveva due difetti: una fragilità muscolare che frequentemente gli causava infortuni e la passione per il calcio, attività che spesso interferiva con l’impegno nell’atletica.

Nonostante avesse fatto registrare alcuni tempi incoraggianti nei primi mesi del 1923, le trasferte di Giongo a Londra e Parigi furono piuttosto deludenti, con un rendimento ben diverso rispetto a quanto fece vedere verso la fine di giugno a Bologna nei Campionati nazionali, dove fu stimolato dalla presenza del velocista di Pola. Nella finale dei 100 metri Giongo e Zucca piombarono assieme sul traguardo. Se sul tempo non c’erano dubbi, un ottimo 10”4/5, l’ordine d’arrivo fu controverso. Scrisse Erardo Mandrioli: “Fra Zucca, primo indiscutibilmente a due metri dal traguardo e l’incalzante Giongo, che è caduto più che non si sia buttato sul traguardo in un estremo e disperato sforzo, la distanza sul filo di lana è stata impercettibile. Dei quattro giudici d’arrivo, tre sono stati in favore di Giongo, mentre uno solo si è pronunciato per Zucca”. Il giorno dopo Giongo si impose con 22”3/5 anche nei 200 metri dove il velocista istriano, vistosi staccato dagli avversari, si ritirò a 30 metri dal traguardo, ma venne ugualmente classificato in quarta posizione. Il contestato arrivo dei 100 metri ai Campionati nazionali diede vita a una rivalità sportiva che si trascinò anche nei meeting esteri disputati nella prima metà di luglio e attentamente seguiti dalla «Gazzetta dello Sport» .“Vedi combinazione! Giongo e Zucca sono andati a togliersi il bruciore nientemeno che a Berlino. Di solito, passata la festa, cioè i campionati, molte lune dovevano passare prima che si riuscisse a combinare una rivincita di qualche arrivo discusso. E non sempre si riusciva. La finale dei 100 metri del 1919 e quella dei 200 del 1922 fanno storia. Questa volta invece, con buona pace di Zucchetto, la cosa è venuta presto ed all’improvviso. A Copenaghen il buon dottore s’era squagliato desiderando di riservarsi per i 200 metri, cosa che, naturalmente, non poteva non aver indotto il polese ad alzare la cresta. A Berlino invece Zucca si è dovuto accontentare di arrivare brustbreite, cioè ad un petto, come dicono i tedeschi”. Tempo: 11” netti per entrambi. L’ultima parola però spettò al polese che il 27 luglio, alla “olimpionica” organizzata allo Stadio di Roma, finalmente ebbe la soddisfazione di battere il rivale nella finale dei 100 metri. I due furono divisi al traguardo da un decimo di secondo: 11”1 a 11”2. Fu l’ultima volta che si incontrarono e per Giongo si concluse una carriera importante, con 11 titoli nazionali vinti e una lunga lista di primati all’attivo. 

Se era terminato il periodo dei confronti in pista, era invece cominciato quello delle polemiche dirigenziali, che lo videro battagliare in precongressi e congressi della FISA sui temi delle forti spese e dei bilanci federali. In particolare si impegnò per lo snellimento del programma dei Campionati dove erano ancora inserite gare come i 20.000 metri di corsa in pista, i salti senza rincorsa, il lancio della pietra e la palla vibrata. Ma la sua principale attività era quella di medico. Divenne uno stimato professore universitario di radiologia. Morì a Milano il 28 dicembre 1981, alla veneranda età di novant’anni.

(parte seconda - fine)

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