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Omaggio a Giuliano Gelmi: anno 1955, bella stagione con tante soddisfazioni (2) PDF Print E-mail
Monday, 01 November 2021 09:54

 

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Tre atleti che spesso si sono incontrati nel 1955 scambiandosi i gradini del podio: stavolta al primo posto degli 800 metri Luciano Patelli, al secondo Giuliano Gelmi e al terzo Gianfranco Baraldi. Siamo alla «Pasqua dell'atleta», a Milano il 17 aprile; la pista è quella dello storico Campo Giuriati, come ci ha precisato l'amico Gianfranco Carabelli. A quella edizione della «Pasqua», organizzata come sempre dalla Riccardi, presenziò, e fece anche delle premiazioni,  Monsignor Giovanni Battista Montini, da poche settimane arcivescovo di Milano, che sarà chiamato al Soglio Pontificio nel 1963 ed assumerà il nome di Paolo VI (Archivio Gelmi)

Riannodiamo il nostro raccontino sulle gare del caro Giuliano Gelmi nell’anno 1955 con un brano da un articolo di Bruno Bonomelli da «l’Unità», del 6 giugno. “Dopo aver condotto una gara di prudente attesa l’universitario pavese Gelmi è scattato a trecento metri dall’arrivo della gara dei 1500 metri, e inutilmente sui suoi passi si sono buttati il campione italiano Maggioni – assai giù di corda quest’anno per colpa dei suoi pressanti impegni professionali – e il rappresentante della Riccardi, Rizzo. Sul rettilineo d’arrivo Gelmi ha respinto anche l’attacco finale portatogli da Rizzo…Per Gelmi ventiquattrenne e Rizzo 22enne si tratta del miglior tempo della loro carriera atletica”. Alzi la mano chi si ricorda invece come era finita la gara degli 800 metri di quella semifinale del Campionato di società, a Milano? Capito, facciamolo prima a dirvelo: nell’ordine, Patelli, Lensi, Gelmi, Rizzo, Fontanella. Andò diversamente al «Comunale» di Bologna, il 18 giugno, in occasione della finale dello stesso Campionato, che quell’anno sperimentò una bizzarra formula che prevedeva la partecipazione dei migliori dodici atleti usciti dalle semifinali. Leggiamo nel comunicato 85 dell’11 giugno:” La Presidenza federale preso atto dei risultati…comunica l’elenco degli atleti o squadre staffetta ammessi alla finale…”. ‘Sto Campionato di società è sempre stato un pateracchio che non ha mai trovato una sua identità ed è un finto specchietto per far credere che una volta all’anno si parla dei club, che sono in verità gli unici a non trarne nessun concreto beneficio, se non uno striminzito titolino sui giornali, quei pochissimi che ne parlano.

Fotografò la situazione ancora una volta Bonomelli su «l’Unità», 18 giugno, con questo titolo: «Il cosiddetto campionato di società». E scrisse: “Pretendiamo troppo che dalla lotta fra Patelli, Gelmi e Lensi con possibili infiltrazioni di Rizzo e Scavo, scaturisca un tempo al di sotto dell’1:54.0? Siamo esagerati se indichiamo a Gelmi, Rizzo e Lensi che l’obiettivo dei 1500 non è solamente il primo posto ma anche «un meno» di 3:57.0?”.  Purtroppo sì, il nostro mezzofondo, come abbiamo già detto, era fortemente in ritardo in quel momento. All’ombra delle Due Torri felsinee, il primo giorno, furono quasi gli stessi atleti di quindici giorni prima che diedero vita alla serie migliore (la seconda) degli 800, e stavolta Gelmi mise in fila tutti, con un finale da defibrillatore: Giuliano 1:55.4, Patelli 1:55.5, Scavo 1:55.5, Rizzo 1:56.3, Dordoni 1:56.6, Fontanella 1:56.8, Lensi 1:57.9. Giovanni Scavo nato ad Ascoli Piceno il 9 maggio 1936, quindi diciannove anni, un ragazzo, ma un ragazzo che già faceva sognare l’atletica italiana. L’anno prima, con i colori dell’Istituto Cesare Battisti di Velletri, aveva vinto i Campionati Studenteschi romani: corsa campestre e 1000 metri in pista. Fu di gran lunga il migliore con un eccellente 2:34.2 sulla stessa distanza anche nel Criterium nazionale riservato agli scolaretti. Alla fine dell’anno (maglia dell’ACLI Velletri) era già dodicesimo nella lista nazionale dei 1500 metri, 4:04.6 (primo al Trofeo delle Regioni, davanti a Baraldi). Poi, nel 1955, entrò nel C.U.S. Roma. Ai primi di giugno, nella semifinale romana, aveva sgranchito le gambe in 1:56.6. Un altro atleta che vogliamo ricordare: Cesare Dordoni, nato a Piacenza il 26 aprile 1934, vestiva la maglia verde del G.S. Calzaturificio Diana, società cittadina voluta l’anno prima da un imprenditore locale per dare una «casa» al grande «Pino» marciatore campione olimpico ed europeo; fra i due Dordoni non esisteva nessun legame di parentela. Cesare corse quel giorno in 1:56.6, nuovo primato piacentino, che avrebbe resistito vent’anni (Reggio Emilia, 30 maggio 1965) migliorato da un giovanotto di grande talento, Giorgio Bozzini, sceso a 1:55.8 (finì la breve carriera con 1:53.6, comunque ben lontano dal suo vero valore, mai totalmente espresso).

Torniamo sulla pista del «monumento della nuova epoca» (dal discorso mussoliniano inaugurale dello stadio), il giorno dopo, 19 giugno, si replicò sui 1500 metri, serie unica. Due diciannovenni ai primi due posti, molto vicini, Gelmi fu appena dietro, terzo, limando sei decimi (3:59.2) al suo miglior tempo; poi il milanesissimo Alfredo Rizzo (4:01.6). Dunque, primo Scavo (3:58.6), secondo un mingherlino sardo di Monserrato, provincia di Cagliari (nato il 10 maggio 1936), Antonio Ambu, un altro venuto fuori dai Campionati Studenteschi: primo sui 1000 metri nel 1953, l’anno dopo vincitore della corsa campestre; correva per la Scuola Secondaria Antonio Cima di Cagliari. Quello che nella vulgata giornalistica diventerà «il tamburino sardo», identificazione che verrà usata per vent’anni negli articoli e nei titoli fino a sfinimento del lettore, quel giorno a Bologna ottenne (3:58.8) il suo primo importante piazzamento non da studente. Antonio ebbe una carriera lunghissima: corse fino al 1969, strada, pista, campi, sette volte campione d’Italia di campestre e altrettante di maratona, due Olimpiadi, primati da contare col pallottoliere.

Una curiosità: nelle stesse giornate furono aggiunte a quelle degli uomini alcune prove per le donne, cosa inconsueta per i tempi. Trattavasi di gare indicative per l’incontro Belgio-Italia (Anversa, 3 luglio). Una sottolineatura: nei 100 metri, una signorina torinese – che già aveva partecipato ai Giochi Olimpici di Helsinki ’52 – corse due volte, la batteria (prima in 12.1) e la finale (pure prima, 12.0). Quella signorina, il cui nome è Giuseppina Leone, sarà «il primo atleta italiano» (non è un errore, la definizione è voluta) a partecipare a una finale olimpica sui 100 metri, Melbourne ‘56. Quanti se ne sono ricordati nelle appena trascorse giornate olimpiche giapponesi? Davvero pochi, che risulti a noi, ma due li conosciamo: Franco Bragagna e Guido Alessandrini, voci RAI. Crediamo di non sbagliare dicendo che Giuseppina Leone è una delle figure più trascurate nella storia dell’atletica italiana: eppure, nelle gare di velocità, è stata quattro volte finalista olimpica, su tre partecipazioni. Ma ormai la cultura del nostro sport è in mano ad individui che a malapena si ricordano quello che è accaduto il giorno prima.

Riprendiamo gli eventi del giugno 1955. Sabato 25, a Vigevano, incontro Milano – Pavia. Sugli «otto» Gianfranco Baraldi (inserito nella squadra milanese) fece il miglior tempo stagionale, 1:55.0; secondo Patelli, 1:56.2, terzo Gelmi, 156.3, quarto il comasco Luigi Bassano 1:56.5. Gelmi corse anche una frazione della staffetta svedese. Il 29 gli atleti furono allo Stadio di Mompiano, a Brescia, per una «notturna», che fece registrare bei risultati. Su 1500 continuò il confronto Baraldi – Gelmi: 3:58.4 e 3:59.2, personale eguagliato. Entrambi vennero convocati per l’incontro Grecia – Italia, ad Atene, domenica 10 luglio. Ma disse loro male: i 1500 metri furono l’unica gara dove gli azzurri topparono! Vinsero tutte le altre gare (dodici, punteggio finale 68 a 42) ma Baraldi (3:58.6) e Gelmi (4:02.0) dovettero vedere le terga dei due ellenici Papavassiliou (3:57.8) e Costantinides (3:58.2). Scrisse il bollettino federale:” La sconfitta degli italiani nei metri 1.500 è stata la sola dell’incontro, ma nulla ha potuto Gelmi contro i due greci e lo stesso Baraldi, che ha condotto la gara dai 600 ai 1000 metri, ha dovuto cedere allo sprint finale di Papavassiliou e Costantinides, accreditati di risultati superiori a quelli dei nostri”. Non si stupisce Bonomelli («l’Unità», 14 luglio):” La prova provata è che nei 1500, specialità nella quale i greci ci sovrastano abbastanza nettamente (e qual è la nazione europea che, oggi come oggi, non ci sovrasta nel mezzofondo?) il nostro Baraldi, pur classificandosi al terzo posto, ha, a un dipresso, pressoché uguagliato la propria miglior prestazione. E di più avrebbe certamente ottenuto se non avesse sbagliato il calcolo dei giri: il che lo ha portato a non impegnarsi eccessivamente nella volata. Egli credeva di dover percorrere ancora un giro!”. Un motivo per ricordare quell’incontro con i greci: Silvano Meconi, toscano di Cortona, fu il primo italiano a scagliare il peso oltre i 16 metri (16.05).

Barcellona ospitò la seconda edizione dei Giochi del Mediterraneo, dal 22 al 25 luglio. Pochini i nostri, solo 21; per i 1500 si puntò su Gianfranco Baraldi, che, visto il risultato, iniziò con questa gara la sua ascesa verso prestazioni di buon valore. Fu settimo in 3:55.6 appiccicato al greco Papavassiliou (3:55.2, primato nazionale), il quale pochi giorni dopo, ad Atene, vincerà il titolo mondiale militare sui 5 mila metri, terza la «fiamma oro» Francesco Perrone, vittima del COVID-19 qualche mese fa. Due turchi ai primi due posti, Kocak (anche lui poi campione con le stellette) e Onel, primato nazionale per lo spagnolo Tomás Barris, quarto, un vivacissimo catalano che ha scritto un bel libro sulla sua carriera atletica. Il bollettino federale non sprecò neppure un aggettivo per la prestazione di Baraldi…Ne parlò Bonomelli («l’Unità», 30 luglio):” Il ventenne Baraldi da parte sua, pur non figurando fra i piazzati, essendo arrivato settimo al traguardo, è stato accreditato di 3:55.6; le cronache però, al riguardo, ci ammoniscono che il bergamasco è terminato freschissimo, e che il suo mancato piazzamento è dovuto semplicemente al fatto che il suo lungo compasso di gambe mal si presta al ritmo frenetico degli ultimi duecento metri di una gara di mezzofondo; resta ribadita così l’impressione ch’egli sia meglio adatto a gare di più lunga lena”. Messaggio inascoltato, nonostante anche le prestazioni nelle gare di corsa campestre indicassero questa via.

Ci riserviamo per l’ultima parte di stagione? Allora facciamo punto qui e arrivederci nei prossimi giorni.

(seconda parte – segue)

Last Updated on Wednesday, 03 November 2021 14:24
 
Le nostre pubblicazioni entrano negli scaffali della biblioteca comunale di Storo PDF Print E-mail
Thursday, 28 October 2021 00:00

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A sinistra, l'assessore Mariella Bonomini e Ottavio Castellini; nell'altra, anche il bibliotecario Ferdinando Bagozzi e Ennio Colò

Qualche giorno fa, due nostri soci hanno risalito la Valle Sabbia, bresciana, costeggiato il lago d'Idro, sono entrati nella valle del fiume Chiese e raggiunto Storo, in territorio trentino. Località che è patria di un prodotto famoso fra i buongustai: la polenta gialla di Storo, ottenuta dalla macinazione del mais qui coltivato. Ma non sulla sapida gastronomia locale vogliamo intrattenervi, ma darvi conto di una iniziativa che ha visto protagonisti i nostri due soci e un maratoneta di anni fa. Ennio Colò fu un bravo fondista agli inizi degli anni '80, all'epoca del crescere della maratona nel nostro movimento pedestre: era il tempo delle prime maratone di Gianni Poli, Orlando Pizzolato, Antonio Erotavo, Vito Basiliana, e tanti altri. Si erano formati vari nuclei locali in competizione fra loro: Ferrara, Brescia, un buon movimento al Sud, la Federazione si era affidata all'entusiasmo di quell'indimenticabile personaggio che era Oscar Barletta. In questo manipolo di corridori che scoprivano la maratona c'era appunto Ennio Colò, trentino di Storo.

Brevemente. Ennio, sempre appassionato di atletica e impegnato come allenatore nella società Atletica Valchiese, di cui lui stesso ha vestito la casacca, conosce il nostro sito, e in partitolare Ottavio Castellini, che di lui ha scritto parecchie volte quando correva. Ennio frequentò l'I.S.E.F. (allora si chiamava così) di Brescia e il nostro socio imbrattava le pagine sportive del «Giornale di Brescia», pagine sulle quali si scriveva di atletica, di corse, di maratone, un giorno sì e l'altro pure. Poi venne la trasferta di Laredo, Spagna, Paesi Baschi, nel giugno del 1980, per un incontro di maratona ed Ennio e Ottavio era là, nei rispettivi ruoli. Materia per una futura storiella.

Quella odierna riguarda la visita dei nostri due soci, accompagnati da Ennio, alla biblioteca comunale «Nino Scaglia». Una struttura davvero pregevole, funzionale, ricca di volumi e ben gestita, resa possibile dalla volontà dell'Amministazione comunale e dai quattrini europei, quattrini che ci sono per chi li sa trovare. E ci ha fatto un gran piacere scoprire che l'atletica era già presente su quegli scaffali, per esempio con i volumi del trentino Ottone, per tutti «Bill», Cestari che ha dedicato molte pagine all'atletica della sua regione. È  stato quindi motivo di soddisfazione donare alla biblioteca storese le pubblicazioni del nostro Archivio Storico ancora disponibili. Sono state ricevute dalla signora Mariella Bonomini, assessore alla Cultura, Politiche Sociali e Comunicazione, affiancata dal bibliotecario Ferdinando Bagozzi e dallo stesso Ennio Colò. Corre obbligo di ringraziare, a nome di tutti i nostri soci, le persone coinvolte in questa visita per la cortesia non formale, la disponibilità e l'interesse di mostrato. Per dire, la signora Bonomini che era per impegni fuori Storo, è rientarta appositamente per accoglierci.

Ci sono altri due risvolti di questa visita che andremo valorizzando prossimamente. Di Storo era un velocista degli anni '30, Licinio Bugna, che prese parte ai Giochi Olimpici di Berlino '36. Ha una storia personale molto bella che Gianni Zontini ha raccontato diffusamente sull'elegante bollettino del Comune di Storo. E che noi racconteremo ai nostri lettori. Ma non è finita: Ennio ha coinvolto in questo incontro anche il figlio di un altro bravo atleta storese, il quattrocentista Alessandro Baratella, che correva vicino ai 50 secondi nel 1938. Altra storia che ci ha incuriosito. Per conoscere la lunga vicenda del nostro sport servono appunto «pala, piccone e microscopio», Marco Martini dixit.

Last Updated on Thursday, 28 October 2021 17:39
 
Omaggio a Giuliano Gelmi: anno 1955, bella stagione con tante soddisfazioni (1) PDF Print E-mail
Sunday, 24 October 2021 00:00

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La foto qui sopra appartiene all'Archivio personale di Giuliano Gelmi, che gentilmente ci ha autotizzato la pubblicazione

"In quella edizione c'era anche il mio primo allenatore: Luigi Facelli". Poche parole rilanciate sullo spazio ASAI di Facebook. Ce le ha inviate Giuliano Gelmi, uno dei nostri migliori mezzofondisti degli anni '50, che ci ha sempre seguito con simpatia. Sì, a Los Angeles 1932, Giochi Olimpici, i secondi sul suolo americano, c'era anche «Luisot» Facelli, il quale era alla sua terza Olimpiade, poi ce ne sarà anche una quarta, a Berlino, quattro anni dopo. Sulla pista del Coliseum californiano il campione di Novi Ligure ottenne il suo miglior risultato: quinto nella finale dei 400 metri ostacoli. Dopo la lunga e importante carriera, Facelli insegnò l'atletica ai giovani. E, se ricordiamo bene, partì proprio da Pavia, dove Gelmi era accasato al locale C.U.S., dopo aver vestito negli anni precedenti i colori della Lancia Torino. Gelmi era bergamasco di nascita, esattamente di Leffe, in Val Gandino. Vide la luce il 2 luglio 1931.

Perchè proprio il 1955? Una casualità: un socio stava pazientemente consultando ritagli di giornali, liste bonomelliane (le uniche che esistevano allora…) e rivista federale di quell'anno. Ha trovato spesso il nome di Gelmi ed ha deciso di fare una «deviazione» per raccontarci qualcosa di lui in quella stagione. Che Giuliano aprì con una convocazione per un raduno dei migliori mezzofondisti nazionali a Schio, dal 16 al 22 marzo. Una notizietta a pagina 2 del numero 5 del quindicinale della Federazione informa che insieme a lui, nel primo turno di allenamenti, ci saranno anche Alfredo Rizzo, Gianfranco Baraldi, il lucchese Alvaro Lensi (spesso scritto anche come Lenzi), il giovane promettente modenese Natale Coliva, e altri ancora. Direttore del raduno il C.T. Oberweger, assistito da Lauro Bononcini e Mario Lanzi.

Il nostro fece il debutto agonistico stagionale a Vigevano, l'11 aprile, con un 800 cronometrato in 1:58.2, in solitudine assoluta, visto che il secondo, il vigevanese Rivolta, arrivò in 2:16.5. Tanto per fare un po' di velocità corse anche un 300 in 38.7. Pochi giorni dopo, 16 e 17 aprile, doppio impegno a Milano: primo giorno la batteria degli 800, la terza: fecero gara a sé, l'emergente ventenne Gianfranco Baraldi (Libertas Bergamo) 1:56.7, con Gelmi non lontano 1:58.0. L'indomani la finale, molto serrata: la vinse Luciano Patelli (Pro Patria), che in batteria era stato più parsimonioso con le sue energie, 1:56.0, incalzato fino alla fine da Gelmi, 1:56.1, e da Baraldi, 1:56.3. Siamo adesso al giorno 25, la «rosea» scrisse:” Gelmi dà misura delle sue possibilità, correndo da solo i 1500 in 4:02.1, cioè 1 secondo e 5 sotto il suo miglior tempo 1954".

Giusto il tempo di salire sul treno per raggiungere la Riviera Romagnola: a Rimini erano in programma, su tre giornate, i Campionati nazionali universitari (furono presenti atleti di 22 università). Il 29 aprile primo turno dei 1500: Gelmi, in prima serie, controllò facile, 4:22.0. Poi batteria della staffetta 4x400 con il C.U.S. Pavia: Gelmi in terza, in prima il bresciano Gaspare Bertuetti, gli altri erano un giovanotto di Alessandria, Luigi Albertelli, atleta da 50 secondi e pochi (stavolta fu quarto nella finale dei 200), e tal Redondi, del quale poco conosciamo se non un 2:07.1 sugli 800 durante un incontro Milano – Pavia verso fine giugno (3:32.2, miglior tempo per i giovanotti dell’Alma Ticinensis Universitas). Ci par doveroso far rimarcare la presenza di Ludovico Perricone, torinese, sia sui 400 sia nel quartetto del C.U.S. Torino. Curioso svarione della «rosea» che scrisse Perruconi e non Perricone, confondendo con il cognome del velocista di parecchi anni prima e che non correva più da qualche anno (11.2 nel 1950). Ludovico fu poi giornalista per tutta la vita, fino alla vicedirezione del quotidiano «Tuttosport», una passione illimitata per l’atletica, tanto da scrivere insieme al nostro Marco Martini un elegantissimo volume sull’atletica piemontese. Tragica la sua fine: fu travolto e ucciso da una moto mentre rientrava a casa dopo aver cenato fuori, era l’estate del 2004.

Doppio impegno per Gelmi anche il secondo giorno, 30 aprile. Corse la prima batteria degli 800, vinta in 2:01.2, e poi la finale dei 1500: titolo universitario in 4:07.0, il bolognese Mario Geat 4:12.0. Il giorno dopo, 1º maggio, stesso ordine d’arrivo nella finale degli 800: 1:58.3 contro 2:00.2. E per chiudere terzo titolo universitario per il nostro studente di chimica con il quartetto, già citato, della quattro per quattro: 3:29.0. Il C.U.S. Pavia oltre ai tre titoli di Gelmi ne ebbe un quarto con Domenico Palenzona nel disco; se non prendiamo un clamoroso abbaglio Palenzona, negli anni successivi, sarà ricercatore e assistente volontario nella stessa università per Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Nota aggiuntiva: ricordiamo il successo di Enrico Spinozzi, non uno qualunque nella vicenda atletica romana e nazionale, sui 400 (50.6) e secondo con la 4x4 romana.

Prima riunione nazionale dell’anno il 15 maggio: a Modena la «Coppa Arata». La «Gazzetta dello Sport» rimarcò “Un importante successo di pubblico…”. Scrisse la pubblicazione federale:” La attesa riunione nazionale…ha avuto un grande successo…è durata sin oltre le 20, dato l’elevato numero di iscritti (circa 250) che ha costretto gli organizzatori a rivoluzionare l’orario con l’aggiunta di numerosi turni di eliminazione e qualificazione”. Evidentemente le iscrizioni si facevano sul campo, all’ultimo minuto, altrimenti un commento così non avrebbe senso. “In tre-quattro ore i quattrocentisti hanno corso cinque volte, e i centisti quattro”. Dai risultati ufficiali abbiamo contato otto batterie dei 100, poi quarti di finali, semifinali e finale; per i 400 sei batterie, semifinali e finale, e poi, tanto per arrotondare, batterie della 4x4 e finale. Per non dire degli 800: quattro batterie e finale. Questa gara riunì tutti i migliori del momento; le batterie fecero registrare otto tempi sotto i due minuti, che per quei tempi…; la migliore fu la quarta, vinta dal diciannovenne reggiano Natale Coliva, 1:57.8, su Gelmi, 1:58.8, appaiato da Alfredo Rizzo, e subito dopo il bresciano Aldo Bonfadini, 1:58.9.  Questo scrisse il quindicinale federale sulla finale:” Ha vinto Gelmi, che appare il più in forma dei mezzofondisti attualmente e ben otto atleti si sono presentati all’arrivo nello spazio di una decina di metri. Coliva, giovane della scuola, ha infilato tutti per il secondo posto; da ricordare che ha corso due volte in meno di 1:58:0 e che il suo primato era di 2:02.4…Illustri battuti Patelli, Tagliapietra, Rizzo. Onorevole il comportamento di Baraldi”. Risultati: Gelmi 1:56.5, Coliva 1:57.3, Baraldi 1:57.6, Tagliapietra 1:58.0, Rizzo 1:58.3, Patelli 1:58.5, il vicentino Carlo Clementi 1:58.7; il piacentino Cesare Dordoni 1:58.8 (primato della città dei Farnese, primo a scendere sotto i due minuti sulla distanza).

Milano, 22 maggio, fase regionale del Campionato di società: bel 1500 vinto da Baraldi, 4:00.6 su Gelmi, 4:01.5, e Rizzo, 4:01.8. Riprendiamo da «Atletica»:” …una ottima gara ha visto primo al traguardo il ventenne Baraldi al limite dei quattro minuti, mentre il campione italiano Maggioni (Vittorio, di Desio, n.d.r.) è giunto sesto. Baraldi ha migliorato di ben tre secondi il suo record del 1954 (4:03.6, Milano 13 giugno, n.d.r.); gli sono arrivati alle spalle in meno di 4:02.0 Gelmi e Rizzo, che pare ritrovarsi. Poi ancora Fontanella e Bassano, entrambi migliorando nettamente i rispettivi precedenti limiti”. Il primo cremonese di Piadena, il secondo comasco di Osnago. Insistette Gelmi: il 29 maggio, sempre a Milano, durante i Campionati lombardi di II e III Serie, migliorò di un decimo, 4:01.4; lontanucci Fontanella e Bassano.

Quattro furono le semifinali del Campionato di società, il 4 e 5 giugno, una a Milano. Il primo giorno, nella terza serie degli 800, il migliore fu Luciano Patelli (originario di Visinada, Pola) con 1:55.6, seguito da Lensi, 1:56.1, Gelmi 1:56.5, Rizzo 1:56.5, Fontanella 1:56.9. Il giorno appresso, Gelmi perforò infine la barriera dei quattro minuti, che allora per i mezzofondisti italiani era pur sempre un «muricciolo». Questo fu l’ordine d’arrivo della seconda serie, la migliore: Gelmi 3:59.8, Rizzo 4:00.2, Maggioni 4:01.2, Bassano 4:02.6, Lensi 4:03.4.

Tra noi e il resto del mondo nel mezzofondo purtroppo c’era un baratro. In questi stessi giorni, a Budapest, ci fu un 1500 vinto da Roszavolgyi in 3:42.8 (il magiaro sarà terzo nella finale olimpica a Roma ’60), seguito da Tabori 3:45.0 (primatista del mondo della distanza e quarto ai Giochi Olimpici di Melbourne ’56). Oppure a Compton, in California, l’americano, del Kansas, Wes Santee corse il miglio in 4:01.2, circa 3:43.0 sui 1500. Alla fine di quell’anno furono una ventina gli atleti sotto i 3:45.0.

(fine della prima parte – segue)

Last Updated on Monday, 01 November 2021 09:51
 
L’atletica leggera nella letteratura fascista: un saggio di Sergio Giuntini (2) PDF Print E-mail
Wednesday, 20 October 2021 13:36

Il prof. Sergio Giuntini ci accompagna, in questa seconda parte del saggio sull'atletica leggera nella letteratura fascista, alla scoperta (per chi non li avesse mai letti prima...) di alcuni autori che hanno cercato ispirazione nel nostro sport. Non tutti si elevano ai vertici della buona letteratura, ma fanno parte comunque parte della vicenda letteraria di un'epoca che ebbe nello sport una fonte di ispirazione.

Seconda parte

Esaurito il capitolo relativo agli autori compresi nella Prima antologia degli scrittori sportivi, vale ora soffermarsi su Orio Vergani e Alessandro Pavolini, impegnati nel raccontare la prova “regina” della velocità. Vergani, firma di punta del “Corriere della Sera” capace di passare con naturalezza dalla “terza pagina” della cultura al Giro d’Italia e al Tour de France fino all’enogastronomia, nel suo volume «Festa di maggio. Racconti e bozzetti sportivi» (SEI, 1940) incluse il brano “100 metri” dando un saggio d’alta scuola delle sue indiscusse qualità stilistiche. Una prova d’autore alla ricerca, per certi versi “eugenetica”, dello sprinter perfetto. Una descrizione minuziosa dell’uomo più veloce al mondo che in un lampo, vissuto il suo attimo fuggente, non lo sarà più:

Una nota sola. Un endecasillabo solo. L’ultimo verso del sonetto. L’acuto che corona e chiude la romanza. Cento metri di corsa. La lettera A e la lettera Z dell’alfabeto atletico. Lo sforzo più elementare e più complesso. Il problema che si risolve sulle cinque dita e l’algebra dei calcoli infinitesimali. Un miliardo di uomini passati al setaccio della pista per trovare quell’unico che, se l’umanità fosse disposta su una linea sola, su una linea di partenza lunga migliaia e migliaia di chilometri, e venisse lanciata innanzi, in massa alla più alta velocità possibile, per una distanza di cento metri, sopravanzerebbe tutti, all’arrivo, di un centimetro, di due, di tre, di mezzo metro, di due metri, di dieci, di venti, di cinquanta. Un uomo solo, un uomo di venti o ventidue anni, innanzi a tutti gli altri: lo spasimo del suo sforzo finale, la convulsa agonia del suo viso, lo strappo tentacolare nell’ultimo metro d’aria, la nudità quasi lacerata dai muscoli, il guizzo urlante dei suoi tendini, la schiavitù disperata del suo unico respiro, il martello rotondo e pauroso del cuore che sfonda le costole e la gola, la durezza di spasimo delle mascelle attanagliate dal cavo della distanza, il gioco delle rotule e dei femori nei loro incastri levigati, la chiamata al soccorso dei nervi, l’S.O.S. lanciato a mille lontane sorgenti di volontà, di resistenza e di scatto. Un uomo solo. Per venti anni il mistero della vita ha lavorato dentro e attorno a quest’uomo. Ha tornito, limato, levigato queste ossa, questa carne, questi muscoli, questi tendini […]. In tutte le parti del mondo, i cento metri di migliaia e migliaia di piste, a tutte le ore, in tutte le stagioni, vengono percorsi a passo disperato, a gran carriera, a folate vertiginose, da centomila uomini di vent’anni […] col cuore in gola, gli occhi sbarrati nella tenebra, a cercare sul cuscino il filo di lana bianca del traguardo tagliato netto in sogno con lo scatto che hanno gli angeli, i demoni e i personaggi dei sogni. Le stagioni setacciano i nomi. E l’umanità distratta, a un certo punto, si vede attorno i nomi nuovi, all’orizzonte, come le parole delle notturne pubblicità luminose. Nomi che ancora non dicono troppo: Macalister, Legg, London, Lammers, Williams, Wykof… Nomi buoni per tutto: per marche di impermeabili, per autori di romanzi, per automobili americane, per specialità di medicinali, per finalisti olimpici della corsa dei cento metri […]. Un attimo dopo l’uomo più veloce del mondo è passato. La dea non gli chiede neppure il nome. Scende dalla scaletta bianca. Sa che quest’uomo ha già vissuto l’estremo violento e dolcissimo spasimo della velocità, e che già, in questo splendore, qualcosa della sua meravigliosa macchina è bruciato. Come si chiamerà il successore che ora è un fanciullo e che sarà, un giorno, più veloce ancora? Lascia lo stadio, la dea Velocità. Va a cercarlo, per le mille vie del mondo, tra miliardi di uomini nuovi che attendono, e non sanno”.

E da Vergani a un Pavolini, poco noto quale scrittore. Un versante della sua biografia oscurato dai ruoli di vertice occupati nella politica fascista da potente ministro della Cultura popolare durante il regime e poi da segretario del partito a Salò nell’avventura sanguinaria della Repubblica sociale italiana (Rsi). Pavolini in seno al fascismo fiorentino e nazionale aveva la fama di “liberale”. Una fama non meritata giacchè la sua personalità fu sempre duplice, difficilmente  decifrabile. Salottiero e insieme fucilatore. Amico di Galeazzo Ciano e suo carnefice. Tutto e il contrario di tutto. Un Giano bifronte legato sino all’ultimo solo al suo duce.  Egli proveniva da una famiglia di intellettuali e letterati, essendo il padre Paolo Emilio professore di sanscrito all’Università di Firenze e il fratello Corrado poeta dal tratto delicato ed elegante. Proprio queste origini ne stimolarono forse le velleità letterarie, spingendolo sin a scrivere di sport. Nel 1928 pubblicò (da  Campitelli di Foligno) un romanzo sul ciclismo che portava il titolo «Giro d’Italia», e nei suoi progetti vi era anche quello, irrealizzato, di dare alle stampe un saggio di filosofia sportiva: «I giuochi del paradiso terrestre». Al contrario nella silloge «Scomparsa d’Angela» (Mondadori, 1940) inserì il racconto “100 metri” aperto da questo incipit:"Quando penso a Niccolò vedo prima di tutto una linea orizzontale. Tutti e due, poco più che adolescenti eravamo abituati a pensare le nostre vite con in fondo una retta sottile e sospesa, il traguardo". Niccolò è l’atleta proteso verso gli europei (di fantasia) di Helsinki, l’altro è l’amico il cui sport senza impegno è la vela. A interporsi fra i due è una ragazza che entrambi desiderano. Ciò pare allontanarli, ma quando lei partirà gli amici si riavvicineranno e, in Finlandia, l’amico geloso farà il tifo in tribuna per il “Niccolò ritrovato”. Vi è stato chi, come il critico Enzo Siciliano, in questa trama ha inteso intravedere una specie di trasfigurazione/premonizione del rapporto, sfociato nel dramma vittima-carnefice, tra Pavolini e Ciano. Un legame apparentemente profondo, e in seguito irreparabilmente distrutto dall’infedeltà  del genero del duce il 25 luglio 1943. Una tesi che però, al di là dell’esser presentato Niccolò come livornese, la città d’origine di Ciano, sinora non ha trovato altri convincenti riscontri. Ad ogni modo le parti più riuscite del racconto pavoliniano, intriso di psicologismo, sono quelle che riproducono l’attesa spasmodica del centista prima del via e dello sparo. Una metafora dei momenti infiniti e decisivi d’ogni vita destinata a tagliare il traguardo:

Si costeggiava dal prato il tratto di pista che lo riguardava. I cento metri di polvere rossa, compatta, elastica, rigata dai binari bianchi delle corsie. Mi parlava, per esempio, della posizione da prendere sulla linea di partenza, punta delle dita a contatto del suolo, orecchio al colpo di pistola, occhio al filo laggiù. Più che di spiegazione, il suo tono era allora di confidenza: come di chi, pensando ad alta voce, ripassi fra sé il senso della propria vita. Parlava dell’attimo dello stacco, di quell’unico battito di cuore che divide la lenta vita degli undici secondi vertiginosi. Come un motore in silenzio, che debba accendersi un tratto al massimo dei giri (“il mio cuore non è famoso”, avvertii). Niente rincorse, avvii come in altre gare. Nessuna possibilità come nel salto con l’asta o nei tuffi, di indugiare, scegliersi il momento, il giusto battito del cuore. Niente. Una pistolettata e via. Ma appena ci si allontanava dallo stadio egli si allontanava; mi batteva le sue espansive manate di livornese, scherzava, divagava con spirito; riprendeva dinoccolato a errare per le giornate come un’anticamera. Ormai, però, io sapevo bene che se c’era uno della nostra età il quale non si distrasse mai veramente era lui, Niccolò. Era appunto come quei tuffatori che sostano a lungo sulla cima del trampolino e guardano l’acqua e non la guardano, e pare che il tempo non abbia valore per loro lassù, sospesi a mezz’aria: ma in realtà essi lavorano, lavorano ad aspettare un certo loro istante da cogliere, quello e non un altro, da buttarglisi dietro al volo. Così Niccolò nel suo andirivieni, in quella spaziosità di vigilia che conservava nella sua vita. Aspettava un certo momento. Sempre guardava e non guardava un certo filo, teso ad altezza di cuore. Né si trattava (anche questo sapevo ormai) di un traguardo qualsiasi: ma di un traguardo ben preciso, sebbene ancora lontano nello spazio e nel tempo. Campionato europeo di Helsinki: la finale… Oh, una pista rossa, là come a Livorno; e una pistolettata, e via. Ma le corse che Niccolò poteva disputare prima d’allora, in realtà non erano per lui che prove e rappresentazioni di quello. Erano, nella sua gioventù d’attesa, un accelerarsi breve, poco più che una fitta al cuore. Egli guardava laggiù, a quel dato filo sulle rive del Baltico. E dopo? Dopo, certo, si sarebbe messo agli studi, a una carriera. Ma questo lo dicevamo noi, suoi amici. A parlarne a lui, non è che lo negasse. Semplicemente si rifiutava di considerare qualunque cosa, la quale fosse al di là di quella linea sospesa sottile. Ne avrebbe avuto, direi, un senso come di tradire”.            

Infine ecco la gara con un epilogo quasi alla Samuel Beckett. Una tensione bruciata in una manciata di secondi, restando tuttavia sospeso l’interrogativo sul vero significato di quell’attesa:

Quando partirono e corsero io li vidi avventurarsi verso il traguardo come un’onda frontale, compatta. Conoscete in queste cose il gesto con cui le chiude il vincente, gettando in avanti in un estremo sforzo il petto a toccare primo il filo? Così fece Niccolò. Ma fu come se il filo contenesse una corrente: e il cuore gettato in avanti non reggesse il leggerissimo urto. Cadde sull’erba acciambellata, come un levriero”.

In conclusione, l’atletica leggera declinata in letteratura produsse in epoca fascista degli esiti alterni. Prove di valore invero assai modesto ed altre, si pensi in particolare a Ciampitti, Vergani, Pavolini decisamente più meritevoli. Questo del resto fu il livello generale medio della letteratura sportiva fascista, troppo condizionata dalle pressioni del contesto politico e spesso incapace di andare oltre la propaganda o la retorica di regime.

(fine)

Last Updated on Wednesday, 20 October 2021 15:26
 
L'atletica leggera nella letteratura fascista: un saggio di Sergio Giuntini (1) PDF Print E-mail
Sunday, 10 October 2021 00:00

Parecchie settimane orsono il prof Sergio Giuntini, docente di Storia dello sport e nostro socio di antica iscrizione, ci aveva introdotti alla conoscenza degli albori della letteratura sportiva con riferimento al nostro sport. Oggi pubblichiamo la prima parte di un suo lungo scritto dedicato alla letteratura atletica del periodo fascista.

*****

La stagione fascista ricca di successi atletici in campo internazionale (Frigerio, Beccali, Valla, Testoni, Consolini, Oberweger, Lanzi ecc.) conobbe una sintesi letteraria nei vari brani che, traendo alimento da questa disciplina, furono ospitati nella «Prima antologia degli scrittori sportivi», edita nel 1934 da Carabba a cura di Francesco Ciampitti  e Giovanni Titta Rosa. Il primo tentativo, appunto, di offrire al pubblico una vasta selezione di opere prodotte dalla letteratura sportiva del Ventennio.  In questa raccolta, di Curio Mortari, giornalista de “La Stampa” di Torino e già autore del romanzo ciclistico «La pista del Sud» (Lattes, 1930), si proponeva “200 metri per dame”,  presentato quale anticipazione d’un volume che avrebbe dovuto avere il medesimo titolo. Libro che, peraltro, non vide mai la luce, non essendone stata reperita alcuna altra traccia oltre questo abbozzo. Esemplificativo del suo tono, è un dialogo in cui Mortari riveste la protagonista (una sorta di “signorina Pedani” deamicisiana adeguatamente fascistizzata) dei panni di un “femminismo” di maniera. Così estremizzato da apparire alla fine falso e improbabile. Tende cioè a farne il prototipo, rimasto solo sulla carta, della “donna nuova” vagheggiata dal regime. Una donna tesa a rovesciare i ruoli tradizionali, dinamica, moderna, addirittura  “omerica”:

Ho gusti eroici, solari, radioattivi. Sono una forza della natura. Voi invece mi sembrate ancora un prodotto razionalistico del secolo passato: un melanconico, un nordico, un pessimista. Non capite dunque che la ragione della nostra esistenza sta nel gusto, non nel sistema di vivere? Ma credo che vi cambierò. Vorrei misurarvi: dovete essere alto un metro e settantacinque e avere per lo meno 98 centimetri di torace. Con l’allenamento si potrà ottenere molto di più. Lo sport predispone alla vita totale. Fino ad oggi abbiamo scambiato per vita dell’individuo soltanto una parte di essa: magari quella del cervello, come insegnano i filosofi, che tra gli esseri umani sono più incompleti, quasi sempre per arresto di sviluppo. Voglio redimervi, voglio inocularvi l’amore e l’entusiasmo per l’esercizio fisico. Avete troppi preconcetti verso questa attività, che pure risorge in tutti i periodi omerici dell’umanità. Tutto ciò, d’altronde, è divertentissimo perché irrita tanti imbecilli che hanno scambiato la bruttezza per intelligenza, le deformità per privilegio. - Parlate come un baccelliere. - Allora capisco… Siete una di quelle terribili presbiteriane che vanno ai comizi e tengono dei meetings per la emancipazione della donna! - No, voi non capite ancora. Tutta la vostra intelligenza e la vostra coltura non sono riuscite a darvi la chiave di una creatura semplice e primitiva come sono io […]. E, come avviene a tutti gli uomini, avete cercato le spiegazioni più strane e più spregiudicate. Se io vi fossi venuta incontro ballando il tango con le anche, fumando una sigaretta e strizzandovi l’occhio ad acciuga, secondo la tradizione oleografica che in Europa si attribuisce ai nostri paesi, voi mi avreste probabilmente creduta subito. Ebbene sappiatelo: sono invece una specialista pedestre, inviata dal suo Governo per partecipare ai Giochi olimpici del Sud: prova di “200 metri per dame”.

Di Bruno Fattori, l’antologia del ’34 scelse un componimento poetico tratto dalla raccolta «Linee azzurre», Liriche sportive (Caesar, 1933). Più espressamente la non invero trascendentale “Corsa veloce”: «Sull’alluce nerbuto/ tesa al balzo la volontà,/ nell’aria lieve fiuto/ la preda di velocità./ Allo sparo, che smaglia/ la catena de le gioconde/ fronti, son l’agil scaglia/ lanciata da bimbo a fior d’onde/ e già, fiume sonoro,/ il plauso de le gradinate/ scende e m’investe, coro/ d’ansie all’improvviso inceliate…».

“Chi sa dove è rimasto l’ultimo maratoneta? E’ calata la sera, lo stadio è ormai vuoto, e lungo la via anche i più ostinati curiosi sono andati a cena. Il vincitore dorme, sorridente, coi muscoli sciolti dai massaggi e dal riposo, nella stanza c’è odor di rose e canfora. L’ultimo è ancora lontano; si è seduto sull’erba di un prato ai margini della strada, sotto un albero, quando il cuore gli è mancato e il respiro gli è salito in gola, e ancora non ha fiato per rialzarsi; si è tolto le scarpe, pensa alla gloria che ha perduto e si guarda i piedi rossi, lividi. Quando riprenderà la via, comincerà da solo una triste e lunga marcia di tremila chilometri per tornare a casa”.

E da ultimo anche Ciampitti, uno dei due curatori, compare nel volume con un suo brano, “Il lanciatore di giavellotto”, estrapolato dal romanzo «Cerchi» (Carabba, 1934). Di Isernia, dove nacque nel 1903, Ciampitti occupò un posto di rilevo nella letteratura sportiva del tempo. Laureato in legge e collaboratore de “Il Mezzogiorno Sportivo”, Cerchi fu in concorso alle Olimpiadi dell’Arte di Berlino (1936). Giochi a cui egli fu presente da giornalista ricavandone una serie di ritratti confluiti nella raccolta «Campioni del mondo» rimasta inedita. In precedenza con un altro suo romanzo, «In cammino e arriverò», successivamente intitolato più suggestivamente «Novantesimo minuto», vinse il primo premio letterario indetto dalla Federazione italiana giuoco calcio (Figc) nel 1932. In “Il lanciatore di giavellotto” Ciampitti accompagna il suo atleta nel dubbio e nella solitudine che precedono la prova.  Lo segue nei gesti tecnici ripetuti all’infinito, meccanicamente. In quegli attimi di estrema tensione e concentrazione che finiscono soltanto col gesto del lancio liberatorio, catartico:

Ecco il suo turno: nella vastità del campo il megafono ha scandito il suo nome ed egli si è ritrovato solo sul posto donde inizierà la rincorsa. La mano s’adatta sull’impugnatura di corda, dapprima lentamente, poi con una stretta ferrea e tutti i muscoli del braccio, fino alla rotondità della spalla, partecipano allo sforzo. Per un attimo gli occhi dell’uomo fissano lo spazio fra i suoi piedi e la linea bianca e poi guardano la distesa che sta oltre di questa, cosparsa lontano di picchetti bianchi di legno. Poi la destra si allenta, il braccio si alza e si ripiega nel gomito, sicché la mano, che impugna l’attrezzo, sfiora quasi l’orecchio. Lentamente l’ampio torace si colma in una inspirazione profonda di aria e l’atleta parte…uno, due, tre, quattro, cinque passetti brevi sulla punta dei piedi, col corpo in avanti, poi passi più lunghi, più veloci e poi ancora più rapidi. Di botto il corpo s’inarca sulla schiena, la destra porta indietro l’attrezzo, stendendosi, la rincorsa scaglia contro il vuoto l’atleta e l’atleta scaglia contro il cielo l’attrezzo […]. L’attrezzo era partito come se si fosse staccato dalla carne… vibrava ora alla sommità della parabola, accennava ad andare dritto per poco s’abbassava… E l’atleta lo seguiva cogli occhi, lo spingeva nel volo con la esasperazione della sua ansia, col suo sguardo, con la sua volontà, tratteneva il respiro quasi che così avesse potuto ritardare la caduta, restava proteso con tutto l’essere suo, non vedeva più nulla, non sentiva più nulla. Soltanto guardava l’asta di legno filare l’aria e gli sembrava di avere nelle orecchie come un lieve sussurro di ala: aveva fischiato l’attrezzo, sfiorandogli il capo. Ecco: ricadeva. Egli non lo vedeva più contro il colore del cielo, lo distingueva su quello della folla, addensata sugli spalti. Il giavellotto ricadeva. Tutta la forza di propulsione sembrava che si fosse spenta nella gravità metallica del puntale: le fibre di legno non reggevano più la distanza. Ricadeva. L’ultimo brivido fece piantare l’asta per terra e si spense. Bruno sta ora con gli occhi fissi in avanti e non intende neppure quel brusio che si va levando dalla folla. Trascorrono dei secondi, poi si fa silenzio e il megafono annunzia: “metri settantatre

(parte prima - segue)

Last Updated on Sunday, 10 October 2021 17:22
 
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